di Pina Nuzzo
Pensare e praticare una politica a nostra misura è un punto d’arrivo. Perché ciò avvenga non dobbiamo sentire la nostra storia e la nostra tradizione come vincolanti, come un peso. Anzi, conoscere storia e tradizione può e deve spronarci a trovare la parola e la forma della politica che vogliamo fare, delle novità che vogliamo rappresentare.
Grazie alla nostra lunga storia, l’Udi è oggi un soggetto politico adulto, in grado di dire, in ogni momento, dove sta e di determinarsi liberamente. Sentirsi adulte, sapere di esserlo, rimanda inevitabilmente al senso di responsabilità che ogni donna deve avere innanzitutto verso di sé e verso il proprio genere, facendo attenzione a non farsi carico dell’altro genere, come sempre ci viene chiesto.
Ogni volta che una donna viene chiamata dal proprio compagno, marito, figlio ad assecondare un’azione che la danneggia in nome del bene comune, quella donna viene chiamata a comportarsi in modo femminile, adeguato a quello che ci si aspetta da una donna e, quindi, danneggia anche le altre.
Ogni volta che una parte politica ci chiede di schierarci, come se ciò fosse la cosa più ovvia, dobbiamo sapere che, accettando, non diventiamo più forti, ma ci disponiamo a rappresentare un finto protagonismo. Inoltre questo genera equivoci con le donne presenti nelle istituzioni. Troppo spesso donne che hanno incarichi di un certo livello, soprattutto nelle amministrazioni locali, parlano con le altre, con le donne delle Associazioni, come se dovessero scusarsi ad ogni passo di essere lì dove sono. Oppure recriminare per un senso di solitudine, come se qualcuna le avesse abbandonate.
Questo atteggiamento ha origini lontane, quando nel femminismo la contraddizione di sesso è diventata un vero e proprio spartiacque tra la politica e la politica delle donne, determinando il dentro/fuori dalle istituzioni.
Dopo, in tante hanno fatto il salto nella ‘politica con la P maiuscola’, come si diceva una volta, e soprattutto a sinistra hanno pensato di poter contare in automatico sul sostegno delle altre, magari delle stesse con cui avevano condiviso una storia e una pratica.
Dopo, sono arrivati gli anni della trasversalità, basilare per nominare, all’interno degli schieramenti, quell’intesa che le donne hanno dovuto stabilire per far passare principi e leggi a tutela delle donne.
Tuttavia, in quella trasversalità, per come è stata declinata fino ad oggi, c’è anche la pretesa di esaurire dentro le istituzioni tutta la rappresentanza politica del genere, cancellando il più delle volte l’origine di pensieri parole e azioni. Questo ha portato ad una radicalizzazione delle posizioni, a reciproche accuse tra chi è dentro e chi è fuori da meccanismi politico-istituzionali. Accuse e recriminazioni che non hanno aiutato nessuna perché ci fissano in una subalternità alla politica agita con metodi e tempi dettati da altri, mentre un rapporto tra le donne è auspicabile e può avvenire solo su un piano di reciproca autenticità.
Il rischio più grande è che, per sopravvivere nelle istituzioni, si ricorra a comportamenti che conosciamo bene: mimetizzarsi nel maschile con gli uomini e nel femminile con le donne. Ciò impoverisce tutte, riducendo la rappresentazione del genere ad un unico indistinto ed indifferenziato.
Noi invece abbiamo bisogno di moltiplicarci in tanti soggetti politici capaci di dialogare tra loro, capaci di tenersi testa tra loro, anche confliggendo, ma soprattutto capaci di negoziare con l’altro lo spazio pubblico e quello privato. Capaci di determinare insieme i tempi e i modi della convivenza civile che, nel nostro Paese, si chiama Democrazia.
Quella democrazia che noi abbiamo chiamato paritaria e che è l’unico orizzonte in cui è possibile un futuro. Un futuro che preveda e comprenda la differenza tra i generi come un diverso punto di partenza per affermare differenti diritti, differenti doveri.
Mentre, ancora e ancora, una donna è sempre a ricasco di un tempo reale e simbolico che non prevede discontinuità, un tempo costruito attraverso secoli di pensiero maschile, pensiero di filosofi, teorici, religiosi, politici per arrivare ai nostri media. Il nostro corpo è costretto dentro un divenire delle cose, degli studi, del lavoro, che considera un incidente la maternità o il solo desiderio di avere figli. Ma non sempre ce ne rendiamo conto, perché abbiamo sottoposto il nostro corpo generativo alla coercizione del tempo, così com’è concepito dal genere maschile: un tempo lineare, progressivo, prima si fa questo poi questo poi questo. Ciò è forse possibile per il corpo di un uomo, non per il corpo di una donna che non può mettere in fila allo stesso modo studi, carriera, famiglia. Il desiderio di fare un figlio non può essere messo sullo stesso piano di altre scelte, come un master per esempio: faccio prima il master e poi un figlio – oppure finisco gli studi, mi specializzo poi faccio un figlio. Perché mentre una donna si fa queste domande perde di vista il suo corpo, non riesce più ad ascoltarlo e a decidere cosa sia meglio per lei.
Anche la politica ha un prima ed un dopo ma l’agenda dovrebbe essere vincolata al rispetto corpi che dovrebbero indurre alla concretezza e a rivedere welfare vecchi e nuovi. Sulle donne pesa un tempo in cui la cura dei bambini e degli anziani è considerata tempo perso, il tutto accompagnato dall’angoscia di dover essere all’altezza di tutto, perfette in tutto, sempre più aliene da sé.
Anche questo tiene lontane le donne dalla partecipazione. Noi vogliamo pensare alla nostra politica come una politica su misura, dove tutte le taglie sono comprese. Non una politica small, dettata dalla moda dei tempi, ma per tutte le misure. Una politica amica che permetta alle donne di entrare uscire e tornare con naturalezza, perché la voglia di realizzarsi in modo ampio produce quelle intermittenze che sono tipiche della vita di oggi. Sta a noi leggere la discontinuità, accoglierla e farne un punto di forza per pensare nuovamente alla nostra politica.
Modena 2010, appunti per Assemblea Udi
foto di un’iniziativa che si è tenuta a Modena nel 2015 questo il video