2007:…ripartiamo dalla cittadinanza duale e dalla democrazia paritaria.

Relazione per l’Assemblea nazionale autoconvocata del 17, 18, 19 maggio 2007 che coincide con il Deposito in Cancelleria  del Titolo della  Proposta di legge di iniziativa popolare: Norme di Democrazia Paritaria per le  Assemblee elettive e con la presentazione alle donne della Campagna  50E50…ovunque si decide! avviata nel febbraio dello stesso anno.

Pina Nuzzo, Sala Olivetti, Roma 19 maggio 2007

Appena una settimana fa ci sono state due manifestazioni. In due piazze di Roma. La data scelta da quelle manifestazioni è la stessa del referendum promosso dai clericali per l’abrogazione della legge sul divorzio il 12 maggio 1974. Ciascuna a modo suo, quelle due piazze lo hanno voluto ricordare.

Anch’io voglio ricordare  quel referendum perché ha avuto un’importanza speciale per il movimento delle donne. Non solo nel merito della questione o per i diritti civili. Ma perchè è stata la prima occasione in cui le donne hanno capito che se volevano “vincere” dovevano occupare la scena della politica. Furono le donne, le donne organizzate, a trovare gli argomenti più adeguati  per condurre in termini di massa la campagna per il NO.

Potevano farlo perchè “il personale è politico” aveva già cominciato a fare presa. Svincolandoci, sempre più, dai legami e dalle appartenenze di partito. L’Udi aveva già alle spalle la lunga fase che va sotto il nome di vertenze e continuava il suo impegno sull’occupazione, il lavoro casalingo, i servizi sociali, la scuola. Con azioni politiche sempre più dirette, tese a coinvolgere le donne dal basso, come si diceva una volta. L’Udi promuove  e organizza  il protagonismo delle donne in modo diffuso, di massa, dal basso, appunto. Non delega più l’agenda dei problemi alle istituzioni e si misura con esse da antagonista.

Forti di quella esperienza, dei nuovi rapporti  con le altre e con le associazioni femminili, le donne dell’Udi trovano parole efficaci che superano gli schieramenti. Le donne – tutte – usciranno da quella esperienza rafforzate. E troveranno in questo nuovo protagonismo il coraggio necessario per uscire poi dal tunnel dell’aborto clandestino e continuare la loro azione politica.

Voglio anche ricordare la grande manifestazione dell’Udi a Roma del 13 novembre di quello stesso anno. Perché sia approvato finalmente il nuovo diritto di famiglia. Quel nuovo diritto che eliminerà le forme più odiose e arcaiche di soggezione  giuridica della donna cittadina nel matrimonio. Che stabilirà, nel 1975, che “ i due coniugi hanno diritti e responsabilità uguali e sono ambedue titolari della potestà genitoriale”. E’ forse la legge più importante approvata dalla Repubblica per la famiglia. Vecchi istituti, come la dote e la separazione per colpa vengono aboliti, scompare il capofamiglia, l’autorità maritale e paterna, lo ‘ius corrigendi’, diritto del solo marito a ‘correggere’ moglie e figli, i beni acquisiti durante il matrimonio sono di entrambi, vengono modificate anche le norme sull’eredità. La donna ha il diritto di conservare il proprio cognome, a cui si ‘aggiunge’ quello del marito. E viene cancellata la vecchia distinzione fra figli legittimi e illegittimi.

Tutto questo non sarebbe avvenuto in Parlamento – spostando forze politiche- senza un nuovo protagonismo delle donne italiane.

La titolarità nuova, inedita, che la donna assume nella famiglia modifica i rapporti tra i soggetti, tra l’uomo e la donna, tra la donna e i figli e apre la strada all’autodeterminazione anche nel concepimento. Teniamolo a mente: l’autodeterminazione della donna – da quel momento –  è il problema della nostra società.

Nel 1978 sarà approvata la legge n.194, che – forse è utile ricordarlo – si chiama per esteso: Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. Passata alle cronache come la legge sull’aborto. Per noi, allora come oggi, l’aborto è un dramma e non un diritto civile. Per noi, non era perciò proponibile  alcun “percorso ad ostacoli” che finisse per sottrarre la decisione alla donna su “come, quando, dove, perché, e soprattutto con quali autorizzazioni”. E questo lo abbiamo affermato, nei confronti di qualunque proposta di legge e anche contro le pressioni di partiti della sinistra, segnatamente del PCI.

Sotto il segno dello slogan che aveva trovato un assoluto consenso tra tutte, aborto per non morire, contraccezione per non abortire, il movimento delle donne ribadiva che era necessario istituire capillarmente i consultori familiari per prevenire l’aborto e per diffondere  le metodologie della contraccezione. Infatti nel 1975 erano stati istituiti i consultori e la pillola anticoncezionale sarà mutuabile. Parallelamente alla discussione che si sviluppava in Parlamento, con vari colpi di scena, i gruppi femministi e l’Udi intervengono ovunque con grandi manifestazioni che raccolgono ed esprimono il crescente consenso delle donne. Fino al grande corteo del 3 aprile 1976 a Roma, fatto insieme in nome dell’autodeterminazione.

Anche per questa legge abbiamo dovuto affrontare un referendum, anzi due. Su due sponde politiche completamente diverse. Il Partito Radicale da un lato e il Movimento per la Vita dall’altro, raccolsero, in quegli anni, le firme necessarie alla presentazione di due distinti referendum abrogativi.

Il Partito radicale voleva che l’aborto non fosse più reato e che fosse possibile esercitarlo anche nelle cliniche private. Noi allora ci opponemmo perché volevamo obbligare la struttura pubblica, e quindi la società intera, a farsene carico; se fosse passato il  principio – in sé non assurdo – dei radicali il problema, pensavamo allora, sarebbe rimasto privato anche nella percezione della donna. Il partito radicale perse quel referendum su quella che pure è stata una battaglia di civiltà, anche per loro iniziativa. Forse anche per questo a piazza Navona, Marco Pannella, annettendosi quella legge con un lapsus che gli fa onore, parlando della 194, ha detto  “la nostra legge” e ha riconosciuto che grazie ad essa l’aborto nel nostro Paese è calato del 40%.

Noi, nel momento in cui eravamo impegnate per l’applicazione della legge, fummo costrette ad una difesa senza mediazioni. Sapevamo i limiti di quella legge, ma non potevamo correre il rischio di tornare indietro su un punto così faticosamente conquistato come l’autodeterminazione. Partecipammo alla campagna referendaria con la morte nel cuore. Convinte comunque che bisognasse rispondere NO in entrambi i casi.

Si formarono comitati di partiti di sinistra in difesa della 194 in cui noi dell’Udi decidemmo di non entrare. Perché per noi l’aborto non è un diritto civile, certo. Ma soprattutto perché quei partiti – tutti quei partiti – “pur dichiarandosi a parole a favore della 194, erano responsabili perché nelle istituzioni non si battevano per la sua piena attuazione. Né per l’istituzione dei consultori fatti come le donne li volevano”. (citazione dagli atti dell’XI congresso)

Avevamo paura di perdere. Il 18 maggio 1981 i due referendum furono respinti.

Quello radicale con l’88,4% dei NO. Quello del Movimento per la Vita con il 68% dei NO.

E noi provammo sollievo ma anche una sorta di sbandamento. Eravamo a disagio perché non eravamo state in grado di prevedere l’atteggiamento delle donne. Ma in quel momento era difficile per noi capire le donne  perché noi eravamo le donne. Ricordo ancora la felicità e un comizio improvvisato nella piazza della mia città su camioncino di fortuna, con le donne che arrivavano da tutte le parti. Da quel momento il  concetto di autodeterminazione investe la percezione che una donna ha di sé ovunque.

Sull’applicazione della legge sull’aborto e sulla questione della violenza sessuale si muoverà e ruoterà il movimento delle donne in quegli anni. Il partire da sé, il dichiarare che il personale è politico, il parlare tra donne del proprio corpo, avevano fatto emergere il problema  di una sessualità “stretta tra due paure”: quella della maternità indesiderata e quella di un aborto clandestino.

Si sviluppa  una pratica, un “parlarsi tra donne” dove la sessualità  viene raccontata spesso come “subita”, spesso in termini di aggressione, quando non di vera e propria violenza. Si esplicita e si condivide il timore di uscire la sera da sole. Lo affronteremo poi con il corteo notturno a Roma del dicembre 1976, con lo slogan “Riprendiamoci la notte”, uno slogan di denuncia e  anche gioioso.

Si dà parola politica all’indignazione e non si sopporta più che la violenza sia considerata ovvia e persino “naturale”.

Nel settembre del 1979 viene presentata una proposta di legge di iniziativa popolare “relativa ai crimini perpetrati attraverso la violenza sessuale e fisica contro la persona” elaborata dal Movimento di Liberazione della Donna e fatta propria, dopo un acceso dibattito, dall’Udi, dal Collettivo romano di via Pompeo Magno e dalle riviste “Effe”, “Quotidiano donna”, “Noi Donne” e “DWF”. Le firme saranno solennemente consegnate al Parlamento in occasione dell’8 marzo 1980 da un corteo aperto da decine di carriole piene di firme, ne raccogliemmo 300.000, molte di più delle 50.000 necessarie. Anche in questo caso, l’azione aveva dato luogo a fortissime discussioni all’interno del movimento. Sia sull’opportunità di avvalersi di un meccanismo legislativo, sia nel merito di alcune procedure. In Parlamento il dibattito durerà degli anni (fino al 1996) prima di arrivare ad una legge che almeno, parlerà finalmente di reato contro la persona e non contro la morale pubblica e il buon costume. Infatti  si devono a quell’azione politica  due risultati fondamentali: aver fatto emergere il problema anche in termini culturali, far considerare lo stupro un reato contro la persona e non semplicemente contro la morale. Per noi, e per tutte, da allora, è chiaro che mettere in discussione un modo maschile di concepire i rapporti in termini di potere, fino alla violenza, è qualcosa che tocca tutti gli aspetti delle relazioni tra uomo e donna, compresa la prostituzione.

Anche oggi, come in altre situazioni, sono obbligata ad un racconto, ad una premessa prima di entrare nel merito. Lo faccio perché non posso più assistere a dibattiti televisivi, ascoltare uomini e anche donne che fanno politica, leggere saggi di studiosi, senza sentirmi risucchiata da una parte o dall’altra. Lo devo fare perché non sopporto il progressivoridurre il ruolo politico delle donne  e delle loro associazioni, e non parlo solo dell’Udi, a colore o a testimonianza fino alla cancellazione. Non si può andare, partecipare a nulla senza essere sovrastate da questo o da quel simbolo e senza poter dire una parola che sia ripresa o ascoltata fuori da noi.

Trovo doveroso per me oggi nominare davanti a voi e con voi fatti che non sono mai degnamente rappresentati. Sono perciò ritornata a quel 12 maggio – e alle date più significative della nostra storia politica – per ricordare che la laicità dello  Stato  è un bene di tutti. Va difesa perché  rappresenta i soggetti tutti. Quindi, fare politica e andare eventualmente in piazza, senza le ragioni e senza le parole delle donne impoverisce la politica tutta. Perché, nella migliore delle ipotesi, in questo modo, emergono solo le ragioni degli  schieramenti politici o delle appartenenze religiose. Andare in piazza così serve solo a rafforzare il  fondamentalismo maschile – qualunque fondamentalismo – che pensa di poter sempre  parlare per due.

Qualcosa del genere è avvenuto anche nella vicenda della procreazione medicalmente assistita, dove le ragioni, le scelte delle donne sulla maternità sono passate in secondo piano, sommerse da uno scontro tra scienza ed etica, tra nuovi stregoni e vecchi tromboni. La vita vera è sparita, annientata dall’ideologia, da due opposte ideologie, sulla pelle delle donne. E questo accade quasi quotidianamente in tutti i dibattiti politici dove le grandi questioni che attraversano il nostro tempo vengono ridotte alla misura di questo o quel partito e i soggetti ricondotti  in schemi che li mortificano. Da tempo aspettiamo un colpo d’ala.

Abbiamo deciso che per noi era maturo  il tempo di rischiare un gesto politico, di  chiamare le donne ad un nuovo protagonismo e abbiamo anche pensato che avevamo titoli per farlo.

In tutte le iniziative che abbiamo avviato, come per le forme politiche che abbiamo adottato con il  XIV, abbiamo sempre avuto una grande attenzione per le parole e per l’uso che ne facevamo.

A volte, ci siamo rese conto che il nostro linguaggio risentiva di una consuetudine  che ci rendeva meno libere nella politica. Per questo, ogni volta che  ci veniva spontaneo usare una parola, ci siamo fermate a ragionare, per poi decidere se mantenerla o meno. Senza questo lavoro, non saremmo arrivate al “50E50 ovunque si decide” con la libertà di parlare di campagna. Lo abbiamo potuto fare perché abbiamo riattraversato altre parole altrettanto evocative come organizzazione, rappresentanza, autonomia, autofinanziamento, separatismo…

E oggi siamo in grado di distinguere tra la nostra storia e quello che ci serve adesso, senza rinnegare la nostra tradizione ma anche senza appiattirci sul passato. Questi ultimi vent’anni, forse venticinque, fanno di noi che abbiamo incontrato la libertà femminile  donne capaci di fare leva proprio su di essa per imporre una uguaglianza che prima non eravamo in grado di immaginare.

Una uguaglianza che per paradosso non produce “libertà”, ma è frutto della nostra libertà. Una uguaglianza che – per intenderci ancora meglio – non è affatto incompatibile con la differenza, ma che anzi la contiene prima per poter essere oggi, pienamente, uguaglianza. Del resto, la libertà femminile non sarebbe stata concepibile, in teoria e in pratica, in questo Paese, senza le lotte di emancipazione. Per questo le parole tornano! Tornano perché come a un nuovo giro della spirale, l’emancipazione e l’uguaglianza chiedono di essere riformulate.

Così, ripartiamo dalla cittadinanza duale e dalla democrazia paritaria. E così, solo così, possiamo oggi, in una proposta di legge, parlare di “attuazione” di un articolo della Costituzione che sessanta anni fa parlava di “eguaglianza”.

Ieri abbiamo depositato in Cassazione il titolo della nostra proposta di legge. Quando siamo partite – molte di voi ricorderanno il seminario del 22 febbraio tenuto in questa stessa sala –  avevamo paura, non lo nascondo, paura di essere sole, paura di non avere il polso della situazione. Sapevamo però che l’avvio della campagna sarebbe stato determinante per la sua riuscita. Dovevamo mandare un segnale inequivocabile di libertà e autonomia e, se avevamo visto giusto, dovevamo fare leva sulla voglia di partecipazione delle donne che oggi non trova forme e luoghi accessibili.

E guardando, prima di tutto noi stesse, ma anche intorno a noi, abbiamo capito che, nonostante i convegni e le scuole e le case e le celebrazioni, non eravamo in grado di produrre luoghi di reale partecipazione e dibattito tra donne. Ormai da troppo tempo. Siamo partite da noi, dalla indignazione che ciascuna di noi prova di fronte a come si gestisce la cosa pubblica, a come si trattano e si abusa dei corpi inermi, per come si tratta o dovrei dire maltratta l’ambiente, per sapere che siamo solo donne normali e che ci sono sicuramente tante donne, altrettanto normali, che trovano indecente quello che accade. E sicuramente anche tanti uomini.

Con questo slancio abbiamo intrapreso la campagna 50E50 sottolineando sempre ovunque si decide. Realizzato un percorso politico che potesse crescere insieme alle donne, pensando, strada facendo, le diverse forme di accesso. A seconda delle competenze, delle passioni ma anche della semplice voglia di esserci. Questo è il senso della nostra azione politica

Una legge di iniziativa popolare perché ci permette di avere un confronto diretto  con donne uomini e di rendere esplicito a noi stesse, prima di tutto e poi agli altri il nostro ruolo e la nostra funzione politica. Non ci sfugge che, oltre ad essere una associazione di donne, siamo una istituzione femminile.

I Centri di raccolta non sono solo un modo organizzato per raccogliere 50.000 e più firme, ma daranno ad ogni donna, o gruppo di donne, che siano dell’Udi o no, l’opportunità di fare politica e di imparare come si fa politica. Perché per organizzare la raccolta delle firme è necessario:  avviare le pratiche necessarie,   stabilire rapporti con il territorio e con le altre, affidarsi a chi ne sa di più,  entrare in un progetto più grande del gruppo o dell’esperienza politica a cui si è fatto riferimento fino a quel momento.

Il Consiglio delle donne non è un insieme di sigle e rappresentanze, ma èe sarà reale condivisione delnostro progetto, è e sarà la rappresentazione che saremo capaci di offrire partendo insieme dall’ovunque che ciascuna di noi abita per rinominare una dimensione collettiva. E sarà un rappresentarci a noi stesse nelle nostre singolarità non contrapposte, per un tempo definito e circoscritto: quello della Campagna.

E’ tempo di darci semplicemente credito.

I prossimi appuntamenti saranno nelle piazze, ai tavolini quando partirà la raccolta delle firme. Ieri, lo sapete, abbiamo provveduto al deposito del Titolo in Cassazione. Ed eravamo veramente emozionate, più di quanto avremmo potuto immaginare, nell’ascoltare le parole rituali che due donne dirigenti leggevano in una sala di udienza della Suprema Corte.

A proposito di momenti solenni e di date rituali, ci stiamo attivando per riuscire a partire con la raccolta per il due giugno: è una data che dice molto, alle donne, alla Repubblica e alla laicità.

Come dicevo prima: ripartiamo dalla cittadinanza duale e dalla democrazia paritaria e questo, per noi, ha molto a che fare con la data del due giugno. E con l’iniziativa di dare oggi “attuazione” a qualcosa che ieri parlava già di “eguaglianza”.

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