Roma 23/24 Novembre 2002 casa internazionale delle donne, prima autoconvocazione congressuale:
intervento d’apertura di Pina Nuzzo
Sono qui, in questo congresso, con la leggerezza che si prova quando si è assolto ad un compito difficile. Si apre oggi il XIV Congresso dell’Udi che è, prima di tutto, un evento collettivo. Rosangela Pesenti ed io abbiamo portato a termine l’incarico che ci era stato affidato e, senza rivestire propriamente il ruolo di dirigenti, abbiamo garantito che si arrivasse a questo appuntamento osservando le regole che l’Udi si era precedentemente date: chiedendo alle singole e ai gruppi di registrarsi, favorendo la comunicazione tra di noi. Abbiamo resistito all’idea e anche alla tentazione – perché la paura di non essere all’altezza era tanta – di costituire un gruppo preparatorio, perché questo avrebbe pregiudicato l’andamento del dibattito prima e durante il congresso. E’ pure vero che l’autoconvocazione non ha insistito più che tanto nel proporlo, segno che, se pur con qualche dubbio, andavamo tutte nella stessa direzione.
Formare un gruppo ci avrebbe obbligato a stabilire i criteri per la sua composizione, visto che da poco avevamo considerato conclusa la pratica dell’autoproposizione senza verifica, infatti noi due eravamo già garanti e responsabili di sede su mandato. Le donne qui riunite potranno discutere dell’associazione che vorranno senza che niente sia stato precostituito, perché questa assemblea non solo è formalmente sovrana, ma sostanzialmente libera. E da questo momento tutte, anche Rosangela Pesenti ed io, ci diamo la libertà di fare le nostre riflessioni e di confrontarci nel dibattito che seguirà.
La mia riflessione non può prescindere dall’esperienza che ho fatto in questo anno e mezzo e riguarda due questioni in modo particolare :
- il rapporto tra la sede nazionale, le realtà locali e le singole
- il lavoro svolto dalle donne dell’Udi in questi anni per come lo
Avere avuto un mandato quale responsabile di sede residente a Roma mi ha messo in una condizione particolare perché, senza essere in presenza di una vera e propria delega, sono stata chiamata nella sostanza a incarnare una forma politica inedita che ha richiesto da parte mia responsabilità nei confronti dell’Udi ed equilibrio verso un mandato condiviso. La condivisione di questo mandato con Rosangela mi ha portato a dover fare i conti anche con i tempi suoi e della sua vita e questo è stato una misura anche per me, per non farmi fagocitare dalle cose che io stessa avviavo.
Essere responsabile di sede ha voluto dire, prima di tutto, avere con la sede un rapporto quotidiano, continuato. Per un lungo periodo mettere ordine, dare un senso agli spazi, immaginare il loro uso, è stata l’unica forma di vitalità della sede nazionale dell’Udi. Mi sembrava di essere in un luogo sospeso nel tempo.
Nessuna donna telefonava, non arrivava neanche un e-mail e gli indirizzi scritti sulla rubrica rimandavano a nomi familiari ma anche sfocati. Cosa pensavano tutte quelle donne? dov’erano? perché non rispondevano alle lettere che andavamo scrivendo?
Ho cominciato a telefonare, a chiedere e a rendermi conto che molte non aprivano la posta o la guardavano distrattamente. Tale atteggiamento derivava dall’abitudine a ricevere lettere dalla sede nazionale che non prevedevano risposta se non per prenotare i calendari: quindi bisognava avere pazienza per colmare la distanza che si era creata. Rosangela Pesenti ed io abbiamo continuato a scrivere per quasi un anno in modo puntiglioso, ripetendo quello che l’autoconvocazione andava decidendo e dicendo anche quello che pensavamo. In quel periodo noi due ci siamo parlate molto, per confrontare la nostra storia politica e per trovare il coraggio di dire quello che volevamo dalla politica e che intuivamo essere un desiderio più diffuso: la voglia di essere presenti non più solo come soggetti capaci di pensiero e di parola, ma anche come soggetti capaci di organizzare la presenza e la parola collettiva.
Da questo a renderci conto che l’autoproposizione era un’esperienza conclusa il passo è stato breve, così come abbiamo capito che da questo spostamento sarebbero derivate delle conseguenze che sul momento non riuscivamo ad immaginare. Ci siamo mosse con cautela, ma anche con rigore perché quando in politica ci si sposta per davvero niente è più come prima e anche le cose più semplici acquistano un significato che bisogna indagare e nominare. Ci siamo trovate tutte su un terreno nuovo ed inesplorato, che ha richiesto una gestione collettiva in presa diretta. L’autoconvocazione si è fidata di noi, noi del sostegno che le donne dell’autoconvocazione si erano impegnate a darci.
L’aspetto più interessante del mio mandato riguarda tutto il lavoro che ho fatto per far circolare le informazioni e mettere in comunicazione le donne. In questo mi sono sentita coinvolta perché parlando con voi mi è successo di appassionarmi, di emozionarmi, di vedervi fuori dagli schemi in cui ci siamo confinate tutte in questi anni. Anche di fronte ad un tono aspro e risentito ho cercato di tenere presente che non era rivolto a me direttamente, ma alla funzione che io in quel momento rappresentavo. Mi sono arrabbiata solo pochissime volte e solo quando mi si attribuivano come personali le scelte che ci hanno portato sin qui. Mi è anche capitato di imbattermi in certe forme organizzate che permangono nell’Udi dove la responsabile di un gruppo, anche di sole cinque donne, funziona da inciampo anziché da tramite nella comunicazione. Mi sono resa conto che a molte donne dell’Udi le lettere provenienti dalla sede nazionale non vengono fatte conoscere, o vengono fatte conoscere dopo un’accurata rielaborazione. Questo mi sembra un modo curioso di interrompere la comunicazione perché, senza essere l’esercizio di un vero potere – che richiede sempre un qualche coraggio – diventa solo una forma di controllo inutile che produce miseria.
Controllo che non è giustificato neanche dalle considerazioni sui documenti giudicati difficili e incomprensibili. Ed è altrettanto curioso che alcune responsabili abbiano vissuto la mia richiesta di avere i nominativi e gli indirizzi delle donne del loro gruppo come un’ingerenza. Vi renderete conto che formulare un indirizzario che corrisponda alla realtà delle donne dell’Udi non è solo un fatto organizzativo o burocratico, ma richiede un’intenzione politica e la disponibilità da parte di tutte. Basta questa esperienza per capire che dovremo ripensare le forme dello stare insieme. Le singole che si registrano alla sede nazionale dell’Udi hanno accesso diretto all’associazione, decidono di contribuire finanziariamente nelle forme previste.
I gruppi si registrano alla sede nazionale con un nome collettivo e versano una quota che decidono autonomamente: con quale procedura i gruppi stabiliscono l’accesso delle donne all’Udi? come viene discusso il contributo necessario alla sede nazionale, se pensiamo di volerla? E perché, di rimando, alla sede nazionale è interdetto l’accesso diretto a concrete donne? C’è voluto tutto il mio impegno per reperire indirizzi e allargare il raggio dell’informazione su quanto stavamo facendo e a tante più donne. La novità, l’imprevisto per me, è stato la telematica. L’uso delle e-mail ha fatto scavalcare molti steccati e permesso una comunicazione veloce, documentabile, che lievitando via via ha modificato la percezione dell’associazione. L’e-mail è diventato un modo diretto per parlare, molto personale, quasi intimo senza la privatezza del telefono. “Sono contenta – mi ha detto Marilisa – quando la sera apro il computer e vedo che dal buio emerge uno scritto e so che dall’altra parte c’è una donna e un luogo di donne che mi scrive e può accogliere i miei pensieri”. Le donne che sono arrivate all’Udi attraverso la posta elettronica, oltre al desiderio di essere informate, sperano di trovare nell’Udi l’occasione di incontro reale con le altre. Infatti alcune di loro oggi sono qui.
E sono presenti anche giovani donne che si sono avvicinate in virtù della necessità di consultare l’Archivio centrale per una tesi o una ricerca. Il vero impulso che le muove tuttavia, quello che ci mettono un po’ a svelare, è il desiderio di incontrare altre donne. Sta a chi apre la porta di via dell’Arco di Parma sapere che la consultazione dell’Archivio, per noi, è uno strumento per colmare il divario con le nuove generazioni. Le carte, i manifesti, sono una mediazione per conoscerci e per parlarci. Non possiamo riproporre il “partire da sé” tra soggetti che hanno tanta disparità – per storia e per età – ma possiamo sollecitare lo scambio e il desiderio di fare conoscenza e lasciare il tempo alle più giovani di guardarsi intorno e di decidere come segnare di sé la politica delle donne.
Io posso solo essere accogliente senza essere materna, senza fingere di essere o di pensare come loro.
Per far conoscere il XIV congresso e le sue procedure ho scelto di muovermi nella città di Roma organizzando piccoli incontri nelle case. La mia idea era ed è che per ricostruire un tessuto di rapporti dovevo riferirmi alla socialità che le donne dell’Udi avevano mantenuto fra loro. Solo questo mi avrebbe permesso, come è stato, di uscire dalla logica del territorio o dell’appartenenza. La socialità di una donna dell’Udi, o che è stata dell’Udi, va oltre il posto di lavoro, il partito che frequenta, la famiglia, e mantiene negli anni i contatti con un numero incredibile di donne. Restituire a ciascuna la responsabilità, ma anche il piacere, di organizzare un incontro nella propria casa ha dato senso politico all’accoglienza e ha mescolato le esperienze.
Ogni incontro è stato un avvenimento e si è caratterizzato per la discussione che è riuscito a creare, partendo dal documento del congresso e dalle questioni che sollecitava. Ogni incontro si è spontaneamente focalizzato su un tema: una volta è stata la guerra, una volta i consultori, la solitudine, le quote e la rappresentanza…ma in tutti si è parlato soprattutto di voglia di politica e della visibilità dell’Udi.
L’Udi però rappresenta anche altro in questa città che è la capitale. Roma è stata il centro di lotte che non sono così lontane da non trovare ancora un’eco nella società e tra le donne. Nel corso del tempo le donne dell’Udi di questa città hanno intrecciato rapporti e mantenuto contatti con le donne di altre organizzazioni e associazioni. Non avrei potuto far conoscere il nostro congresso ad un contesto più ampio senza l’apporto prezioso di Renata Muliari, che ha messo a disposizione l’esperienza accumulata nel lavoro delI’Udi La Goccia.
E’ stata lei l’accesso non formale a donne delle più diverse categorie sindacali con le quali mi sono incontrata. Per tutta la fase congressuale proseguirò con questa modalità perché mi permette di lasciarmi alle spalle vecchie logiche di appartenenza e di far rivivere la sede senza precostituire nulla. Sarà il lavoro già avviato a indicarci la strada da percorrere perché in questa città le donne dell’Udi possano trovare nella sede nazionale un luogo dove fare politica. Con questo ho concluso il primo punto in cui mi ripromettevo di raccontare semplicemente quale è stato il mio rapporto con la sede nazionale e come ho realizzato il mio mandato per restituirlo al vostro giudizio.
Il secondo punto riguarda come le Udi e le singole si sono raccontate attraverso gli scritti che abbiamo fotocopiato e messo a disposizione di tutte. Questi scritti sono stati sollecitati nella fase di avvio del censimento, perché volevamo che fossero direttamente le donne a raccontarsi – a dare conto – ma sono via via diventati un modo spontaneo di censirsi, perché quasi tutte hanno capito che il censimento non era un modo per contare i circoli e le iscritte, ma rappresenta l’urgenza di capire qual è la politica e le attività che le donne dell’Udi praticano, in modo che possiamo pensare una forma organizzata che corrisponda ai nostri bisogni. Un numero consistente di gruppi e di singole si è raccontato con molta precisione, non tralasciando niente del come sono organizzate, come si autofinanziano, in quale sede si incontrano, mandando anche copia dell’elenco delle iniziative che hanno fatto e i volantini e il materiale che da molto tempo ritenevano superfluo mandare alla sede nazionale. Tutte hanno dato alle loro parole la dignità del documento, anche quando hanno scelto la forma della lettera. Ma l’aspetto per me più interessante è il giudizio che esprimono sulla loro stessa attività, mai separata dai grandi fatti che accadono nel mondo. Infatti molte, collegando lo stravolgimento che è seguito nei partiti e nelle varie organizzazioni alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, considerano un vantaggio l’appartenenza all’Udi, perché questo ha permesso loro di guardare alla politica del nostro Paese con un certo disincanto.
In virtù dell’XI Congresso del 1982, e di quelli che sono seguiti, le donne dell’Udi avevano un luogo e la libertà di sperimentare pratiche a seconda dell’inclinazione del momento e della qualità dei rapporti che avevano mantenuto con le donne. Molte poi raccontano di aver sperimentato una fase in cui la pratica della relazione è stata importante per capire i meccanismi che scattano nei rapporti tra donne, a cominciare dal rapporto primario tra madre e figlia. Hanno investito queste esperienze nelle forme che a loro sono sembrate più appropriate producendo un linguaggio nuovo che ha rimescolato le parole.
Nasce da una lunga consuetudine di solidarietà tutto quello che chiamano “attività culturale”, che va oltre le scadenze rituali dell’8 marzo e della vendita dei Calendari. “Le iniziative che abbiamo realizzato, oltre a ricordare sempre l’8 marzo, si sono rivolte prevalentemente alla questione della pace – ex-Jugoslavia, Palestina – alla situazione delle donne in Israele e in Afghanistan, alla situazione della fame nel mondo, es. Mozambico. Per questi scopi i fondi raccolti durante pranzi, cineforum, incontri a tema, sono stati devoluti in segno della nostra solidarietà”.
Queste parole dell’Udi di Cadoneghe (Padova) potrebbero appartenere a tante altre e indicano che c’è una questione su cui noi, con questo congresso, non possiamo sorvolare. E’ urgente uscire dal disagio, dalla paura che si apra un conflitto tra noi e si parli della guerra e della pace.
Non si tratta di trovare mediazioni e compromessi, quanto di guardare a quello che accade da un punto di vista che sia comprensibile a tutte, a me per prima.
Faccio mie le parole di Giovanna Azzini del gruppo Udi Donne di Pace di Ferrara che dice:” Non abbiamo soluzioni pronte da proporre, purtroppo non siamo molto brave quando si tratta di teorizzare, ma abbiamo provato a sintetizzare la nostra convinzione di quanto la pace e le donne abbiano uno speciale legame”. E a proposito di questo speciale legame io non penso che le donne siano “naturalmente” contro la guerra, ma che è “naturale” che sulle donne si scarichino sempre tutti i pesi, sia in tempo di guerra che di pace.
Allora è necessario per me partire dalla mia condizione di cittadina per battermi perché altre donne non siano vissute solo come naturali bestie da soma o da riproduzione o come strumenti di vendetta etnica.
Se è possibile, voglio battermi per appoggiare quelle donne che nel nostro Paese – di qualunque appartenenza politica – si fanno carico di sostenere dovunque i processi di democrazia.