L’idea di una campagna 50E50…

Roma, Sala Olivetti, seminario dell’Udi del 22 febbraio 2007, introduzione di Pina Nuzzo

L’idea di una campagna 50E50 ha preso consistenza in diversi momenti, alcuni relativi alla rilettura del nostro modo di essere Udi, altri riguardano invece la lettura che diamo del mondo e della politica.

Ci siamo rese conto, ad un certo punto che ha coinciso con il XIV Congresso 2002-2003, che si era conclusa l’era delle assemblee perché, se molto avevamo imparato da quella forma politica, alla scioltezza con cui tutte prendevamo la parola, non sempre corrispondeva l’assunzione di una responsabilità. Con ciò abbiamo messo alle nostre spalle una fase della politica delle donne che consideriamo conclusa e una pratica che produce solo marginalità.  Per farlo, ci siamo dovute liberare da antiche paure e resistenze di fronte a parole come dirigenza politica sapendo che dirigere  in politica, per noi,  vuol dire assumersi delle responsabilità, sottoporsi a giudizio: così ci prepariamo ad un ricambio.Se non si fa politica con questo respiro è difficile che altre donne, come quelle più giovani, possano imparare come si fa politica . Ho conosciuto, in questi ultimi anni, giovani donne che hanno un’idea mitica o libresca del  femminismo

La politica, invece, quella che cambia le cose, nasce dalla pratica e dal confronto tra le diverse esperienze e richiede il collegamento costante tra donne per costruire una dimensione collettiva. Oggi decidiamo cosa è meglio per noi, e proprio perchè lo facciamo in libertà, decidiamo anche cosa è meglio per le donne. Questo ci obbliga a renderci visibili e riconoscibili alle altre, ci sollecita a progettare una politica che consenta a tutte di partecipare.

Questo è la campagna 50E50: crescere insieme alle altre.

Per quello che accade invece nella società italiana, c’è l’imbarazzo della scelta, ma ci sono dei momenti che hanno segnato il passaggio, per me e per tante, e forse tanti, dal fastidio all’indignazione. Non si può dimenticare lo spettacolo indegno al quale assistemmo nell’ottobre del 2005 quando la quasi totalità del Parlamento respinse ogni tentativo di incrementare – dico solo incrementare – la presenza delle donne.

Colpiva il linguaggio volgare, colpiva il rinnovarsi – sotto i nostri occhi e grazie alle telecamere – della complicità tra maschi, ma più ancora colpiva l’indifferenza verso una parte del paese. Tenere fuori le donne dalle decisioni che  riguardano tutti in quanto umani, immiserisce il tempo che viviamo e la modernità che abbiamo  la pretesa di rappresentare.

Basta guardarsi attorno per vedere che le donne non ci sono, non riescono ad esserci, in tutti quegli ambiti e in tutti quei settori in cui si decide. E non basta più arrabbiarsi in solitudine o lamentarsi con l’amica, questa particolare  azione politica richiede la denuncia, l’esposizione personale affrontando, se occorre, il rischio di essere ridicolizzate. Cosa che accade spesso ad una donna quando la si vuol tenere al suo posto e moderarla.

Dobbiamo stare dentro il nostro tempo in modo spregiudicato e prendere le distanze da quello che si può definire il “nuovo neutro”, da quel modo politicamente corretto di leggere la realtà che appiattisce le differenze e azzera i conflitti, come se riconoscere le diverse esperienze, diverse anche per i sessi, non facesse crescere tutti.

La lingua è la spia evidente  di come si vuole rappresentare la realtà, per esempio  sembra più moderno (e di sinistra)  parlare di “coniugi” perché rimanda a una idea di condivisione che, in caso di conflitto, risulta falsa, basti pensare alle guerre scatenate in nome dei figli. Dicendo “marito e moglie” si nomina una istituzione, il matrimonio,  con cui la società regola un certo tipo di rapporto tra due persone di sesso diverso. Tanto che  noi a suo tempo ci siamo pure battute perché le donne non fossero la parte debole e succube. Nelle trappole della lingua si cade anche quando si parla di famiglie e non di famiglia, eppure è proprio l’uso di quel termine a tradire un pensiero, dove quel modello istituzionale resta l’unico a cui tutti e tutte, etero e no, dovrebbero ambire per sentirsi in regola, nella socialità dei rapporti umani.  Se si fanno sparire i generi da questa istituzione – non parlo del sacramento che è altra cosa e qui non ci riguarda – non eliminiamo automaticamente la divisione dei ruoli, piuttosto si espelle dal rapporto a due, di un uomo e di una  donna, la  titolarità del generare che è, ancora, delle donne. La capacità di generare è cosa ben diversa rispetto all’essere genitori.

Di questa titolarità non ci siamo fatte carico pienamente. Noi ci occupiamo di gravidanza e di bambini ma non siamo ancora in grado di assumere la responsabilità verso il nostro corpo fertile, che concepisca o no, che partorisca o no, perché se lo vedessimo in tutta la sua potenza sapremmo che non ci si può chiamare fuori dall’esercizio del potere.

Neanche con il  femminismo siamo state capaci di scendere nelle viscere di questo problema, anzi esso ha rafforzato la naturale diffidenza delle donne verso il potere in tutte le sue forme. La libertà di decidere quando e se fare figli, che ci siamo duramente conquistate, ci viene  spesso rinfacciata perchè chi ha consuetudine con il potere sa che  poter decidere di sé è il primo passo per stare  nel mondo alla pari e ovunque si decide.

Se ragioniamo a fondo su tutto questo sapremo perchè abbiamo perso l’occasione di avere titolo nel dibattito sulla PMA e perchè e come, nel giro di pochissimo, è potuta passare una legge come quella sull’affido congiunto. Abbiamo esperienza della libertà in un mondo che ce la fa pagare a caro prezzo.  Dovremmo saperlo anche dalla nostra storia, perché non siamo libere per caso e perché non siamo libere per concessione, ma solo grazie alle nostre lotte: ci siamo dovute ribellare al padre,  al sacerdote, al controllo sociale e lottare per una democrazia che ci comprendesse, almeno in parte.

Per conquistarci uno spazio pubblico abbiamo dovuto faticare e tanto, quelle che hanno oggi la mia età e quelle che sono venute prima di noi e che hanno dovuto fare i conti con lo  “specifico femminile” e il “ruolo della donna”. Anche nella prima Repubblica la partecipazione delle  donne è stata contenuta e circoscritta,  ma almeno  i limiti imposti dai partiti e dalle istituzioni erano chiari ed espliciti. Erano di competenza delle donne la tutela dell’infanzia e della maternità, erano cosa loro le commissioni femminili e tutto quello che riguardava lo specifico.

È in un mondo così regolato che le donne dell’UDI hanno imparato quanto sia difficile non perdere di vista le ragioni delle donne. Quello stesso mondo ha visto emergere grandi madri che hanno saputo fronteggiare il maschilismo dei grandi padri. Quel sistema politico e culturale  ha formato  donne,  sia di destra che di sinistra, che sono state grandi donne. Sia chiaro che non rimpiango nulla, ma non posso non vedere che l’attuale sistema politico è sempre meno credibile e sempre più autoreferenziale.

I vecchi sono ai vertici delle  istituzioni di questo Paese, ma ciò è possibile solo con l’appoggio dei partiti ai quali garantiscono lo stato delle cose e delle leadership. Nei partiti, come nell’informazione, contano quelli che potrebbero essere i nostri fratelli in termini di generazione, quelli  che hanno vissuto il ’68, quelli che hanno patito il femminismo. Questa classe dirigente ha egemonizzato la rappresentanza politica occupando tutti gli spazi possibili. Così assistiamo ad un nuovo evento: uomini che parlano per conto delle donne, anzi come se fossero anche delle donne e quando un uomo rappresenta il femminile, quella rappresentazione prevale sui corpi veri.

Intanto la politica è diventata il fare un progetto,  per accedere alle risorse bisogna diventare altro, non basta più essere una associazione di donne, anzi una associazione così discrimina gli uomini… ci siamo imbrogliate come le tarante, avrebbe detto mia madre. Tutta la politica delle pari opportunità, nata per dare alle donne almeno le stesse opportunità degli uomini, è diventata il pretesto per far entrare gli uomini anche negli spazi delle donne.

50E50 si colloca dentro questo scenario. E ci è sembrato ovvio chiamarla campagna. Perché questa parola è nella nostra tradizione politica e perchè evoca la lotta politica che dovremo sostenere per portarla avanti. Perché per ogni donna che vorrà la parola, un uomo dovrà tacere, per ogni posto che una donna vorrà occupare, un uomo dovrà farsi da parte.

Non conosco uomini disposti a farsi da parte. Perché ogni uomo parte sempre dal presupposto che il potere è già un pieno, un pieno di uomini, in pratica e in teoria. Le donne ce la fanno solo quelle rare volte che si accede ad una carica per concorso!

Siamo una  associazione di donne che vuole veramente che il 50E50 si realizzi, non stiamo lavorando per avere il 20 o il 30. Noi non vogliamo le quote, neanche un momentaneo… 50%! Noi vogliamo esserci in modo paritario. E non ci interessa che le donne rappresentino le donne, questo è stato anche un equivoco della nostra politica, non crediamo alla rappresentanza di genere e  sarebbe contro  il principio della  Costituzione che vuole gli eletti senza vincolo di mandato. In democrazia ogni eletto è chiamato a rappresentare uomini e donne, il problema è che un numero cospicuo di uomini è legittimato, di fatto, ad esercitare tale rappresentanza a fronte di un ridottissimo numero di donne.  Ma questa è solo la discriminazione più eclatante, perchè sono tanti i settori in cui alle donne viene impedito di accedere ai livelli più alti, pensiamo alle Università, pensiamo agli Ospedali, pensiamo alla Scuola e non dimentichiamo la Pubblica  Amministrazione.

Altro che soffitto di cristallo!

Per combattere questa prevaricazione, dobbiamo avere la pretesa di esserci,  sapendo che questo aprirà  necessariamente un conflitto, perchè mostrerà lo scarto che c’è nella nostra società tra la reale presenza delle donne, la loro rappresentazione  e la rappresentanza politica.

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