rappresentazione del femminismo e femminismo qui e ora, cogliere lo scarto

pubblicato in “Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro” a cura di Sandra Burchi e Teresa Di Martino, Iacobelli 2013

Introduzione

La Giornata di studi promossa dalla redazione di IAPh Italia – Lavoro o no? Crisi dell’Europa e nuovi paradigmi della cittadinanza –  si è collocata al centro di rapporti tessuti con cura e con pazienza. Reciprocamente.  Per questo, in quell’occasione, ho pensato fosse doveroso ripartire dalla mia esperienza, dalla mia pratica, semplicemente. E lo faccio anche qui.

Quando il femminismo era  nel pieno del suo fermento, nel ’73 – a Modena, io di Lecce, sposata e madre a vent’anni –  ho incontrato l’Udi che alle mie coetanee appariva come tradizionale e quindi vecchia come le nostre madri. A me sembrò più accessibile dei collettivi e di quel giro di rapporti che mi faceva percepire il femminismo come una pratica molto esclusiva ed escludente.  Quell’associazione, con le sue vertenze per i servizi sociali, il diritto allo studio, gli asili nido e il diritto di famiglia, era ancora lontana dai miei desideri e dai miei bisogni, eppure mi permetteva di collocarmi rispetto ai rapporti della mia vita e alla storia delle donne.

 Io che non sapevo nulla del movimento di emancipazione ho imparato direttamente dai racconti delle donne dei circoli dell’Udi cosa voleva dire fare l’operaia, la lavorante a domicilio e nello stesso tempo occuparsi dei lavori domestici in case dove, spesso, vivevano più nuclei familiari. Da queste donne – molte erano state contadine o mondine – ho sentito parlare per la prima volta del “coefficiente Serpieri”[1]. Mi conquistava la passione che animava i loro racconti e mi faceva capire quanto fosse importante per loro l’associazione: era uno strumento – se non lo strumento –  per sollecitare la soluzione di grandi questioni relative all’emancipazione femminile.

L’emancipazione faceva paura

 L’emancipazione faceva paura – non solo agli uomini – e per l’Udi fu un vero e proprio atto di coraggio, a metà anni Cinquanta, metterla al centro della propria politica; fu una scelta che incontrò difficoltà e ostacoli oggi inimmaginabili tra le stesse donne, e pure a sinistra. C’è voluta tanta volontà per non mollare, ma faticare due volte era sempre meglio che morire da casalinghe. Per questo lottarono le nostre madri e le nostre nonne.

La denuncia del doppio lavoro delle donne diventa uno dei temi su cui si sviluppa l’azione dell’Udi che vuole estendere la consapevolezza, tra le donne prima di tutto, che il lavoro casalingo è lavoro e che nessuna ne è esente. Nel 1962 l’Udi organizza una manifestazione per chiedere la pensione alle casalinghe. Quella pensione non fu mai ottenuta, ma una così massiccia presenza di donne, uscite di casa per la prima volta, con i volti e le mani segnati dalla fatica, segnalava che una nuova coscienza si stava facendo strada. Commuove ancora, ed è diventata un simbolo, l’immagine delle donne con il grembiule da cucina davanti a Montecitorio.

Gli anni successivi, fino al ’68 ed oltre, rappresentano per l’Udi quella lunga fase, detta “delle vertenze”, con la quale affronta le tematiche dell’occupazione e del lavoro casalingo, soprattutto rivendica una politica dei servizi sociali per rendere sostenibile la condizione di doppio lavoro. Senza però mettere ancora in discussione i ruoli di genere.

Gli anni Settanta sono gli anni del femminismo, l’associazione continua imperterrita a impegnarsi sui suoi terreni di sempre: i servizi sociali, il diritto di famiglia, la scuola, il lavoro. Cerca però di farlo con una progettualità nuova, sollecitando, per esempio, l’iscrizione in massa delle donne alle liste di collocamento, per rendere visibile una condizione, quella della casalinga, che occultava il desiderio delle donne di lavorare. Ho partecipato anch’io a questa iniziativa che non era affatto scontata né fuori, né dentro casa. Ci furono diverse polemiche e discussioni con i compagni e con i mariti, i quali sostenevano che stavamo bene a casa, che non ci mancava nulla. Andare a lavorare sembrava una pretesa, eppure molte di noi avevano studiato, ma questo non contava più una volta sposate. Quando, rifacendo la carta d’identità sono passata dalla condizione di “studentessa” a quella di “casalinga”, mi sono arrabbiata con l’impiegato comunale e con mio marito che mi disse: “E che dovevano scrivere?”

Iscriversi alle liste di collocamento era dunque una sfida dentro casa e un atto politico attraverso il quale le donne entravano nel mercato del lavoro, ma richiedeva anche un certo coraggio perché voleva dire accettare il primo lavoro utile, in genere lavori ‘per maschi’. Ricordo ancora la prima donna che a Modena venne assunta in questo modo: si chiamava Italia, era molto giovane e fu chiamata a fare il muratore. La sua prima richiesta, sostenuta pubblicamente da noi dell’Udi, furono i servizi igienici. L’ingresso di una donna in un cantiere metteva in evidenza che spesso i luoghi di lavoro erano carenti di servizi anche per gli uomini, potrei dire: erano carenti e basta.

Su casi concreti come questo l’Udi avviò incontri con i sindacati per agevolare l’inserimento delle donne nei settori a mano d’opera prevalentemente maschile, per chiedere una formazione professionale adeguata e una nuova organizzazione del lavoro. Questo ha favorito l’ingresso di molte donne nelle fabbriche metalmeccaniche e nell’edilizia.

Per la cronaca: chiamata a fare la muratora, dissi di no. Ufficialmente perché avevo un bambino piccolo e non avrei saputo come organizzarmi nonostante il nido, in realtà i luoghi dove non c’è il segno della presenza femminile mi spaventano, mi appaiono pesanti. Certo, quando abbiamo avviato quell’azione politica sapevamo che potevamo andare incontro a situazioni difficili, ostili a noi. Ma io, con qualche disagio verso me stessa e verso le mie compagne, ho detto no.

Fare spazio al presente

Oggi, per affrontare politicamente la questione del lavoro, non posso partire da me. Per questo mi sono messa – e continuo a farlo –  in relazione con donne per le quali il lavoro è il presente, una questione aperta, che evoca “un percorso intrecciato, che tiene insieme politica, desiderio, corpo e lavoro”[2].

Con loro – giovani donne dell’Udi, di collettivi femministi e pensatrici – ho condiviso progetti politici e consolidato un rapporto fecondo, che ha dato vita ad esperienze, incontri, manifestazioni[3], in un movimento che nomino come “fare spazio”. E fare spazio significa fare i conti con un forte senso di sé che le donne esprimono diffusamente, con il fatto che la parola libertà è entrata prepotentemente nella quotidianità delle donne.

Pensando a un intreccio nuovo tra vita materiale e aspirazioni, nel Laboratorio Donnae – esperienza politica a cui sono approdata nel 2012 – ho messo a tema l’emancipazione, concetto ritenuto superato. Un po’ provocatoriamente ho intitolato il laboratorio del 2013: “Emancipata sarai tu!”. Infatti, per molto tempo questa parola è stata praticamente bandita dal vocabolario femminista: essere emancipate voleva dire essere uguali agli uomini, essere omologate.

 “Oggi ci si chiede – scrive Federica Castelli – che cosa voglia dire per noi giovani donne emanciparsi? Rispondo: per noi emanciparci ha significato innanzi tutto togliere il lavoro dal nostro centro, ripartire dalle relazioni tra donne e dal proprio desiderio, dall’esperienza, da quello che il corpo ti dice su un determinato luogo e contesto; togliere il lavoro dal centro, in un atto che non è di sottrazione ma di potenziamento del resto, nella consapevolezza del fatto che la costruzione dell’identità non passa più dal lavoro, ma dalla relazione/politica. Infatti, nessuna di noi si sente a suo agio nel rispondere alla domanda “che lavoro fai?”, in un contesto in cui bisognerebbe elencare almeno quattro o cinque lavori differenti tra loro, se non in contrasto, di cui quasi nessuno ha a che fare con il proprio desiderio. Se c’è qualcosa che sento che mi definisce, ora, sono proprio quelle relazioni politiche tra donne che ho trovato e che continuo a nutrire e ad alimentare. Una relazione che è contemporaneamente voce autorevole per me, nel cogliere il mio desiderio di politica, e per tutti gli altri”[4].

 Angela Ammirati, in “contro versa” parlando della precarietà dice: “Non ne abbiamo fatta una declinazione vittimistica. Per noi non è stata semplicemente denuncia di una condizione, ma il nostro sguardo sul mondo. Non una semplice condizione che ridefinisce il nostro rapporto con il lavoro, ma un dato che performa il nostro spazio vitale. Della precarietà ne abbiamo fatto anche un’altra narrazione, che esprimeva un nuovo scatto di libertà da modelli culturali o welfaristi che non parlano più alle nostre esistenze, sganciate dall’idea di un lavoro per tutta la vita e dai quei “saperi forti” che sono stati la spinta emancipativa e trasformativa del secolo scorso. L’insistenza sul reddito di cittadinanza, istanza prepotentemente riproposta a Paestum dalle più giovani, nasce da qui, dal desiderio non solo di uscire dalla ricattabilità lavorativa, di ‘rivendicare un minimo sociale, al di sotto del quale un essere umano non può condurre una vita dignitosa’, ma di sostenere una nuova idea di libertà[5]”.

Ho voluto essere accompagnata dalle parole di altre donne perché la politica, che è il mio ambito di ricerca e di azione, ha bisogno di costruire le sue azioni sulla materialità della vita, oltre i luoghi comuni. Ho detto e scritto molto in questi anni, anche sul lavoro; a volte mi è sembrato di farlo nel vuoto, invece la capacità di tante di fare da sponda al mio pensiero con parole proprie mi sollecita ad andare avanti. Anche l’invito a scrivere qui è il segno di un ascolto reciproco.

Se metto al centro del mio pensare il mio corpo fertile

Quando le donne parlano di lavoro non possono prescindere dalla maternità e dal lavoro di cura. E’ pure evidente che si tratta di donne appartenenti tutte ad una stessa classe sociale, non saprei dire quale secondo le vecchie categorie, ma tutte sono istruite, hanno in comune esperienza di lavori precari, spesso svolti dentro casa, hanno un bambino piccolo e tanti anziani di cui occuparsi. Tutte sono determinate a realizzarsi nella vita liberamente e autonomamente. Loredana De Vitis, in diverse occasioni, ha sottolineato l’importanza dei soldi nel gestire anche le relazioni interpersonali. Infatti difficilmente una manager mette l’accento sulla condivisione, il problema viene risolto diversamente. Del resto tutte noi, non solo le manager, dobbiamo molto della nostra emancipazione alle rumene o alle ucraine che ci sono necessarie per rendere compatibili le nostre responsabilità domestiche con le responsabilità del lavoro.

Dopo tanti anni di politica sono giunta alla conclusione che la società, per come è pensata e strutturata, non sarà mai ‘casa’ per una donna. Il tempo della vita  strutturato in modo lineare – prima si fa questo, poi questo, poi quest’altro ancora – è funzionale al modo di pensare e di essere di un uomo. Dentro questa linearità egli è a proprio agio, il suo corpo non solo si adatta, ma vi corrisponde.

Mentre una donna, per quanti aggiustamenti si possano operare, per quante leggi si possano ottenere, rimane estranea in una società così concepita. Il corpo di una donna ha un suo ciclo di vita che non può essere costretto dentro un tempo che non preveda discontinuità. Il desiderio di fare un figlio non può essere messo sullo stesso piano di altre scelte: prima finisco gli studi, poi faccio un master, poi mi specializzo, poi faccio un figlio.

Non si può più accettare che il concetto di autodeterminazione sia subordinato alla necessità del momento, che rimanere incinta sia una scelta procrastinabile quasi all’infinito.

Non possiamo più accettare che il corpo fertile di una donna venga sottoposto alla coercizione di un tempo lineare, progressivo, perché mentre si domanda cosa sia meglio fare prima, perde di vista il suo corpo, non riesce più ad ascoltarlo, a decidere cosa è meglio per lei. Il tutto accompagnato dall’angoscia di dover essere all’altezza e perfette, sempre più aliene da sé.

Anche la politica ha un prima ed un dopo, ma l’agenda dovrebbe essere segnata dai corpi – dalla loro “pesantezza” – che dovrebbero indurre alla concretezza e a rivedere i sistemi di welfare vecchi e nuovi.

 Ma se io metto al centro del mio pensare il mio corpo fertile, che non vuol dire corpo che necessariamente genera, devo accettare che venga prima. E che nella relazione con l’altro sia asimmetrico. A mio vantaggio. Essere una donna è un privilegio.

 Se assumo questa asimmetria, e finora noi donne non l’abbiamo fatto, posso stabilire un patto con le altre –  anche con quelle che i figli non li faranno mai, che non li vogliono – che ci renda capaci di negoziare con l’altro lo spazio pubblico e quello privato. Capaci di determinare i tempi e i modi della convivenza civile che nel nostro Paese si chiama Democrazia. Una democrazia condivisa che preveda e comprenda la differenza tra i generi come un diverso punto di partenza per affermare differenti diritti, differenti doveri. Donne e uomini troveranno la misura dell’essere madre e padre quando la società in cui viviamo accoglierà come un corpo che fa ordine il corpo fertile delle donne.

Allora il generare – nel senso di fare un figlio proprio con quell’uomo – diventerà anche un progetto con quell’uomo. Questo sarebbe uno spostamento enorme che può avvenire con il supporto di pensatrici e di politiche.

 Per la mia esperienza, nella politica, o almeno quella che interessa a me, è superata la fase delle azioni parziali, a tema – rappresentanza, lotta agli stereotipi e perfino il contrasto alla violenza – perché quanto abbiamo fatto, in termini di leggi e di campagne, cammina sulle gambe delle donne e le istituzioni sono sempre più costrette a farci i conti per il buon motivo che le cittadine votano.

Serve una politica che sappia prendersi il tempo della crescita e della cura del pensiero, che torni a occupare lo spazio pubblico con forme nuove. La consuetudine alla piazza virtuale ha trasformato la vecchia piazza in una piazza mediatica – spesso gridata – sempre più oggetto di consumo. Tutto questo ha reso irrilevanti le forme tradizionali della politica.

 In conclusione

 Quanto ho raccontato fin qui dimostra che c’è stata una fase in cui fare politica ha coinciso con la costruzione di me. E’ accaduto quando il corpo, in virtù della pressione del femminismo,  è entrato prepotentemente nella definizione della mia identità, condizionando la relazione con l’uomo, ma anche con le donne. Quando abbiamo cominciato a parlare di sessualità e di aborto nell’Udi, l’ho dovuto fare in presenza di donne diverse per età, cultura ed estrazione sociale; per molte di loro, invece, era stato il lavoro il perno di gran parte dell’iniziativa politica. Da quel momento e per lungo tempo, la dicotomia emancipazione-liberazione segnerà  il dibattito politico, come le scelte di vita di tante. E’ avvenuto anche per me.

 C’è stato, poi,  un momento in cui ho cominciato a chiedermi che senso avesse fare politica e con chi. E’ accaduto nel 2000, quando, assumendo il ruolo di Delegata nazionale dell’Udi, ho avuto modo di incontrare donne che si avvicinavano all’associazione per consultare l’Archivio Centrale, per una tesi o per una ricerca. Era evidente che oltre alle carte e ai manifesti erano attratte dall’incontrare altre donne. E quando mi hanno detto: “Voi avete già fatto tutto!” ho pensato che forse era vero, se guardavo indietro e alla mia storia, avevamo fatto tanto, ma non era possibile che fosse tutto.  Ci poteva essere un tutto esaustivo, definitivo, che prescindesse dalla loro vita e dal loro tempo? Poteva, questo tutto, pietrificarci nella dicotomia insidiosa: le giovani e le vecchie?

 Per superare le categorie – giovani/vecchie – con cui ci rappresentiamo sbrigativamente e per dare  progettualità alla politica, ho focalizzato lo sguardo sulla loro attualità, non per vedere quanto mi somigliano, ma quanto, invece, sono diverse. L’insofferenza che a volte manifestano verso di noi – “femministe con una storia alle spalle” – per l’insistenza con cui ci raccontiamo e ri-raccontiamo, non è per nulla in contraddizione con  un altro sentimento, che pure percepisco in loro: il desiderio di saperne di più della nostra storia collettiva e di avere dei precedenti a cui riferirsi. Di fronte a questa richiesta ho avvertito l’urgenza di non pensarmi al centro della scena politica, ho preso atto che non ci sono “le giovani”- quelle che poi impareranno, che poi cresceranno – ma donne che sanno cogliere il portato politico della loro esperienza, in grado di porre domande che mettono in crisi.

 Cogliere lo scarto tra noi mi ha riposizionato, vincolando il mio fare politica, ancora una volta, all’attualità delle relazioni, alla verifica del tempo e ai mutamenti del mio corpo. Questo mi ha permesso di allestire occasioni di incontro e di scambio dove si sono materializzate le loro aspettative che non riguardano, in prima istanza, un aspetto della loro vita – lavoro, precarietà, salute – che in altri tempi avrei individuato come uno dei temi della specificità, ma esprimono la voglia di essere riconosciute come individue ma in relazione, singolari ma non sole. Qui si situa lo scarto, secondo me, tra una rappresentazione già data del femminismo e quella in cui una donna si percepisce femminista, qui e ora.

 Molto mi hanno fatto pensare le forme di lotta scelte dalle Diversamente occupate, o da altre, per andare in piazza e per aprire “nuove vertenze” sul lavoro, sul reddito minimo garantito. Le donne che vanno oggi in piazza, non fanno come noi che, uscite finalmente dalle case in cui ci aveva confinato il patriarcato, occupavamo lo spazio pubblico, in cerchio, vicine, a fare corpo unico.

Vanno in piazza con corpi di cui vogliono misurare la forza,  con un atteggiamento da guerriere [6], in un confronto diretto con l’altro, reale e simbolico. Questo spostamento dice di un corpo che è già parte di una nuova rappresentazione dei generi e non è omologabile con il corpo dei maschi, i quali, peraltro, tendono ancora oggi a prevalere, anche nella piazza.

E’ evidente che il protagonismo femminile percorre vie non convenzionali e sconosciute, a tutte. Questo prefigura un femminismo – oggi più di ieri –  che è una molteplicità di pratiche e di rappresentazioni.

Pina Nuzzo

 

[1] Negli anni Trenta in agricoltura vigeva il cosiddetto “coefficiente Serpieri” secondo cui il lavoro femminile valeva il 60% di quello maschile. Praticamente una donna lavorava lo stesso numero di ore dell’uomo per ricevere un compenso che era poco più della metà. Nell’agosto del 1932, per più di due giorni, 250 mondine romagnole non si presentarono nei campi per rivendicare condizioni di lavoro più dignitose. Tale coefficiente venne abolito nel 1964.

[2] Intervento di Federica Castelli al Laboratorio Donnae del 26 gennaio 2013, pubblicato sul sito www.academia.edu

[3] Mi riferisco alla relazione politica intrecciata con Federica Giardini a partire dalla Scuola Politica Udi 2009; all’incontro con il collettivo Diversamente occupate; alla manifestazione del 9 aprile 2011 contro la precarietà del comitato “Il nostro tempo è adesso – La vita non aspetta” di cui Teresa Di Martino faceva parte; al progetto dell’Udi – mai decollato – “Planetario Lavoro”.

[4] Ibidem

[5] A.A.V.V., Contro versa, genealogie impreviste di nate negli anni ’70 e dintorni, Sabbiarossa,  2013

[6] uso questa parola nell’accezione che se ne fa nel libro “Sensibili guerriere. Sulla forza femminile” curato da Federica Giardini, Jacobelli editore 2011

Lascia un commento