Marisa Forcina

Luglio 2007

Cara Rosetta,

io e te, come molte altre che si sono appassionate in questi ultimi vent’anni al pensiero della differenza e a ciò che da esso può essere significato, sappiamo bene che la recente proposta di legge, nota come “50E50 ovunque si decide”   non ubbidisce piattamente a una tentazione paritaria e in sé non ha, davvero, niente di diabolico, né pone, come tu dici, uno spartiacque puro e semplice tra politica paritaria e politica della differenza.

La proposta di presentare un uomo e una donna alternati in tutte le liste e candidature è figlia del suo tempo, un tempo che ha visto al lavoro e alla nominazione anche il pensiero della differenza sessuale.

Ricorderai certamente quanto, nel ’94, Luce Irigaray scriveva ne La democrazia comincia a due e perché legava il senso e il progetto di una cittadinanza duale alla più urgente necessità della nostra epoca bisognosa di una convivenza comunitaria nel rispetto delle differenze.

Irigaray, della quale si più dire tutto, ma non certamente che sia estranea al pensiero della differenza sessuale, invitava, già allora, a trovare i modi per generare una comunità composta di cittadini e di cittadine sovrani, e sosteneva che questo sarebbe stato un bel compito democratico, un compito avviato da parte delle donne, un compito rispettoso dei primi passi delle donne verso la loro liberazione.

Perché, ricordava Irigaray, e forse è bene ricordarlo ancora oggi, non si tratta di ottenere e nemmeno di promettere un qualsiasi potere o, possiamo dire, di spartire un qualsiasi potere con la partecipazione al 50% a ciò che è già potere e forza, perché, la democrazia non può fondarsi sulla forza e su un potere, anche se spartito a metà tra uomini e donne.

La democrazia si fonda sul fatto di essere se stessi con sovranità: una donna o un uomo, capaci di condividere un simile diritto a esistere in una comunità fatta di uomini e donne.

La democrazia, insomma, inizia con un rapporto civile, tutelato da diritti, tra un uomo e una donna che sono un cittadino e una cittadina. In definitiva, possiamo dire che la democrazia ha bisogno di rapporti e relazioni civili rappresentati e istituzionalizzati.

Invece, la verità, che tu invochi e alla quale giustamente vuoi restare fedele, come scrivi, fino alla morte, si pone sul piano teoretico e non su quello politico. Le due cose sono separate, e, anche questo, ce lo ha insegnato Hannah Arendt che sosteneva, come sappiamo, la separazione tra verità e politica, non perché la politica debba essere il luogo della menzogna, ma perché la politica è il luogo dell’azione e della narrazione e la si vive nella pluralità, mentre la verità è il luogo della speculazione e la vive nella solitudine e nella singolarità.

Mediazione tra l’una e l’altra è la facoltà di giudicare, ossia la possibilità di esprimere un giudizio, che è soggettivo, ma va nel mondo e lo trasforma.

E, allora, io ti dico quello che è il mio giudizio sul 50E50, come per brevità denominiamo la nuova proposta, dicendo che non ubbidisce a un paradigma di giustizia intesa come equità meramente distributiva e paritaria di poteri. Ritengo che non voglia istituzionalizzare né la parità come pareggiamento, sia pure sulle linee di partenza, né la parità come equivalenza nella gestione del potere e dei poteri. Insomma, ritengo che questa proposta di legge non proponga nessuna eguaglianza come equivalenza.

Ironicamente, tu parli, cara Rosetta, di un verosimile che, con la proposta del 50E50, ha sostituito gli argomenti di verità, di un verosimile che è irresistibile nella sua perfetta geometrica neutrale apparenza di uguaglianza e che si incazza moltissimo quando la verità lo attacca.

Io invece, giudico che, prima ancora di appellarci teoreticamente alla verità, sia questo problema dell’eguaglianza e dell’equivalenza che dobbiamo imparare a considerare politicamente nel progetti che si richiamano alla parità. Perché, ci può essere nella parità una eguaglianza che scandisce e riconosce la soggettività, la sovranità e la libertà, e ci può essere nella parità una equivalenza che sposta di posto e rende intercambiabili i soggetti e le materie e le funzioni e i funzionari e rende intercambiabili i saperi e le cose e le persone, intercambiabili tra loro, perché equivalenti, a cominciare dal produrre o spostare o acquisire denaro. Per pigrizia, per comodità, per semplificazione abbiamo confuso l’uguaglianza (che può coesistere con la differenza, appartenendo l’una al piano dei diritti e l’altra al piano dei vissuti) con l’equivalenza che è molto più comoda e molto più facile da portare dell’uguaglianza corrispondente. E nella parità, il mondo dell’equivalenza ha sostituito il mondo dell’uguaglianza. Lo ritengo l’errore capitale in massimo grado (nel senso anche che deriva dal capitalismo) della modernità. E d’altra parte, anche in geometria il triangolo più ottuso può essere equivalente al triangolo più acuto: ciò che permette l’equivalenza è l’inscrizione in un sistema, la traduzione nella medesima unità di misura. Siccome oggi l’unità di misura è il denaro, è molto facile che l’eguaglianza sia sostituita con l’equivalenza.

Il mio giudizio su 50 E50 è che se rivendica uguali condizioni di partenza, non azzera o neutralizza le differenze; insomma non pone le condizioni di partenza come equivalenti e non le cancella. Semplicemente, invece, le rende visibili e chiare. Nel senso che rende visibilmente più chiara anche la rappresentazione dei tanti spazi di libertà guadagnati in tanti contesti dove il lavoro femminile ha segnato lo spazio pubblico, dove ha avuto effetti positivi e dove ha prodotto del nuovo.

E rende anche visibili le situazioni dove la differenza femminile non ha avuto esistenza: omologata ai poteri forti, partecipe e soddisfatta nella spartizione delle forze consolidate, miope e ottusa nel lavoro di simbolizzazione del mondo che cambia. Perfettamente equivalente nella gestione del potere e della forza.

Ritengo quindi che con 50E50, invece non si rivendichi una parità di accesso al mondo dato e alle sue forze consolidate nelle medesime gestioni, ossia la inscrizione di equivalenti abilità all’interno del medesimo orizzonte del potere, ma si stia chiedendo la possibilità di un riconoscimento di una uguaglianza che parte del riconoscimento e dalla rappresentazione della esistenza femminile.

Detto meglio: 50E50 è rappresentazione della differenza, prima ancora di tradursi in quota o in percentuale di rappresentanza e in percentuale di uguaglianza. Quindi non è la politica della parità che si contrappone alla politica della differenza.

Perché la differenza non si pone sugli oggetti, non è un dispositivo con cui si misurano le situazioni, ma la differenza è portata dai soggetti, ed è l’espressione della loro libertà e la democrazia può, in questo modo, cominciare a simbolizzarla.

 Marisa Forcina

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