noidell’udi noi con le donne

21 giugno 2011,Pina Nuzzo, delegata nazionale

Verso il XV Congresso nazionale dell’Udi

Il XV Congresso nazionale dell’UDI si terrà a Bologna il 21/22/23 ottobre 2011 negli stessi giorni e nello stesso mese in cui si è tenuto il nostro primo congresso, sessantacinque anni fa nel 1945. Questo Congresso è la prima volta dell’Unione Donne in Italia. Nel 2002 abbiamo cambiato la declinazione dell’acronimo UDI per andare verso un noi dettato dalla sorellanza per tutte quelle donne che vivono in Italia, indipendentemente dal loro luogo di nascita. Quello stesso acronimo però ci chiede di andare oltre la sorellanza. Con molte di loro abbiamo immaginato un nuovo inizio e questo Congresso può essere l’occasione perché sempre più storie si raccontino e vite si mostrino e perché ci sia un maggiore coinvolgimento chiamandole a eventuali ruoli di responsabilità nell’associazione.

noidell’udi noi con le donne

noidell’udi noi con le donne sono le parole d’ordine che l’Assemblea nazionale del 21 Maggio ha pensato per il XV Congresso. noidell’udi, così tutto attaccato, è un’espressione che ha sempre fatto parte del nostro lessico, la ritroviamo nelle diverse fasi della nostra politica e nelle carte conservate nei nostri Archivi. E pure è straordinario essere riuscite a dirla con naturalezza per così tanto tempo, nonostante il continuo ricambio di donne, o forse proprio grazie a questo, che ne ha rinnovato il senso. Da sempre è una nostra caratteristica ricercare un rapporto il più  ampio possibile con le donne, non abbiamo mai smesso di chiederci con pazienza e con tenacia chi fossero le donne che volevano parlare con noi e lo facciamo, ancor di più, andando a Congresso. Torniamo a chiederci da chi vogliamo farci vedere e da chi vogliamo farci riconoscere per costruire un noi con le donne che sia fecondo.

All’inizio di questo millennio in diverse abbiamo considerato necessario ritrovare una dimensione collettiva in cui poterci riconoscere e rappresentare. Le forme politiche realizzate negli ultimi venti anni non erano più percepite come ricchezza, ma rimandavano alla frammentazione, alla mancanza di forza. Invece abbiamo bisogno di moltiplicarci in tanti soggetti capaci di dialogare tra loro, capaci di tenersi testa, anche confliggendo, ma soprattutto capaci di negoziare con l’altro lo spazio pubblico e quello privato, di determinare insieme i tempi e i modi della convivenza civile nel nostro paese. Questo ci spinge verso un “noi” più ampio, una “rete”, questa l’espressione usata più frequentemente. Ogni gruppo, associazione, centro, ogni casa, università o libreria delle donne ha provato a dare forma al bisogno di essere di più e in relazione tra noi. Si sono misurate con l’idea della “rete” anche le donne dei coordinamenti sindacali, dei forum di partito…

In questi anni ciascuna ha fatto esperienza, imparando dai propri errori e metabolizzando i rapporti, i riconoscimenti e  le prese di distanza.  Noidell’udi siamo state parte attiva nella ricerca che sentivamo nostra.  Subito dopo il Congresso del 2002, quello del cambio del nome, ci siamo trovate nel bel mezzo di un ripensamento, ci siamo guardate intorno e ci siamo accorte che buona parte delle conquiste storiche del movimento delle donne erano praticamente acquisite, ovvie. Le donne sanno di avere dei  diritti, ma troppo spesso li percepiscono come svincolati da ogni riferimento all’origine. Tutto ciò che riguarda il corpo e la sfera della sessualità è tornato ad essere un fatto privato, ognuna risolve i suoi problemi da sola, al massimo con la sua famiglia, soprattutto le ragazze.

Nel 2005 l’Udi rilancia la sua politica con un Convegno nazionale Generare oggi tra precarietà e futuro in cui denuncia il corto circuito che si è determinato per le giovani donne tra la mancanza di lavoro e il loro corpo fertile.

In quel momento è al governo Berlusconi, c’era stato il referendum sulla legge 40, Giuliano Ferrara lancia una crociata contro la 194, più precisamente sferra un attacco violento all’autodeterminazione. In un panorama cosiffatto cresce l’indignazione, a Milano una donna scrive una mail invitando altre a uscire dal silenzio, si mette in moto in rete un tam-tam da cui prende vita un movimento che si chiamerà proprio Usciamo dal silenzio. Questo movimento promuove a Milano il 14 gennaio del 2006 una manifestazione su la libertà femminile e la difesa della legge 194 che si avvale del contributo di sindacati e partiti e questo solleva l’annosa questione dell’autonomia. Al di là delle dichiarazioni (1) il fatto che la manifestazione si concentri sull’autodeterminazione ci porta tuttavia a dare l’adesione e a valorizzare il protagonismo femminile che quel movimento esprime, sia pure su una piattaforma ancora una volta sulla difensiva.

Nel comunicato di adesione il Coordinamento nazionale dell’Udi infatti scrive: Vogliamo manifestare, insieme con le altre donne, l’intenzione non solo di difendere la 194 e i Consultori, ma di rilanciare la questione chiedendo che si introduca in tutta Italia e da subito la RU486 per l’interruzione di gravidanza farmacologica, che si potenzino i Consultori pubblici, che si cancelli l’abominevole legge 40. Chiediamo che la cittadinanza delle donne sia seriamente assunta molto seriamente dalla politica che, invece, fa esattamente il contrario. Dalle ‘quote rosa’ alla difesa della salute e dell’autodeterminazione: un vastissimo fronte che ci trova unite, anche nelle nostre differenze.

 La manifestazione richiama tantissimi, donne e uomini, e si intravede concretamente, dopo anni, la possibilità di costruire un fronte comune. Questo non avviene, anche se in diverse città sono nati gruppi che si ispirano a Usciamo dal silenzio, manca una progettualità condivisa.

Nell’Udi ci interroghiamo a lungo su che cosa fare, nel febbraio 2006 il Coordinamento nazionale, scrive: il nostro vero problema è che determinarsi nella maternità significa scegliere le priorità, prima fra tutte il lavoro, un lavoro che tenga conto del nostro corpo e dei suoi tempi. La libertà di cui oggi godiamo è frutto della politica delle donne e ne siamo eredi tutte, anche quelle che femministe non lo sono mai state, per scelta o perché troppo giovani. La libertà comporta responsabilità e esposizione, usciamo dall’equivoco di pensare che altri faranno per noi, organizziamo la nostra politica. Un nuovo equilibrio della rappresentanza non ci sarà senza una nuova e decisa lotta delle donne, singolare e collettiva.

In aprile, ci sono le elezioni politiche, Prodi vince di stretta misura, l’elettorato dà una mazzata alla lista di Giuliano Ferrara. Purtroppo le donne elette sono sempre meno, al loro minimo storico. L’Udi, aveva scritto a Prodi, già prima delle elezioni, sollecitando l’Unione a esprimersi sulla rappresentanza ma, dal silenzio e dalle mancate risposte, appare evidente che nessun partito e nessun governo si impegnerà in questa direzione. Anche Usciamo dal silenzio aveva scritto a Prodi.

Si va delineando la battaglia politica sulla rappresentanza che a breve diventerà centrale. Tra le donne organizzate le posizioni sono diverse: c’è chi pensa che sia opportuno fare pressione sui partiti, chi puntare sulla relazione con le donne elette, chi ritiene questa battaglia di retroguardia e sostanzialmente inutile. L’Udi cerca una propria strategia e capisce che l’unico modo per cambiare le cose è dare aria al dibattito, farlo uscire dal circuito delle addette ai lavori. Per tornare a fare politica nelle strade, nelle piazze conia lo slogan 50E50…ovunque si decide!  Queste parole spostano l’asse del discorso dalle quote alla rappresentanza paritaria.

S-quotiamoci, esorta il volantone di presentazione della Legge di iniziativa popolare per la Democrazia Paritaria che prevede la parità di accesso alle candidature e non l’automatismo nell’elezione. Si scrive e si ragiona pubblicamente di democrazia, se sia meglio paritaria o duale, alcune la chiamano plurale, altre continuano a fare confusione con le quote rosa, ma al di là di nomi e di sfumature è ormai chiaro a chiunque che la differenza tra i generi deve essere prevista e compresa in tutti i luoghi dove si governa e si decide.

Con la raccolta di firme l’Udi consolida la sua dimensione nazionale, evidenzia un modo nuovo di pensare la sua politica, acquista credito. Questa Campagna e quelle che seguiranno – Staffetta e Immagini Amiche – rinnovano le relazioni sul territorio con le altre Associazioni, con le donne, con le istituzioni: attraverso regole nazionali, uguali per tutte, semplici e chiare. Questo modo di fare politica dà respiro e nuovo impulso alle Udi locali, senza irrigidire l’organizzazione, anzi, mantenendo una forma agile.

L’entusiasmo e la partecipazione registrati intorno alle questioni politiche da noi individuate diventano un attestato di fiducia verso l’associazione e verso la sua dimensione storica. Per tante rappresentiamo un riferimento che ha rilevanza nazionale sia per la diffusione sul territorio, sia per la capacità di promuovere iniziative che coinvolgono donne in tutto il paese, così come per il sapere accumulato in decenni nel gestire il rapporto con le istituzioni senza compromettere la natura dell’associazione.

Aver visto la forza di tante donne, aver dato credito ai tanti gruppi diffusi nel paese, averli compresi in campagne nazionali senza che nessuna dovesse rinunciare alla propria identità, ci mette di fronte a nuove responsabilità. Siamo chiamate a misurarci con una visione della politica che corrisponda al soggetto che siamo diventate, che tenga conto degli spostamenti avvenuti nelle relazioni donna/uomo e donna/donna, come degli spostamenti che il femminismo ha prodotto nella società. Non è casuale se ogni formazione politica, sindacale, sociale, culturale non può più prescindere dalle “donne”, dal loro protagonismo, dai riti che hanno imposto; pensiamo solo all’8marzo.

Vogliamo un orizzonte altro, abbiamo detto in varie occasioni, ma questo richiede una visione altra del mondo, una lettura del nostro tempo che si sottragga a valutazioni scontate, a risposte automatiche. Occorre un protagonismo inedito che avanzi idee e sappia allargare quel varco che noi stesse abbiamo aperto perché nuovi soggetti potessero avanzare (2).

Visto in questa ottica, il richiamo costante all’Udi nazionale da parte di alcune a fare “qualcosa” per il 50E50 si inscrive negli automatismi di una certa politica. Infatti “qualcosa” significa avviare trattative con i partiti o con le donne dei partiti e quindi riconoscere una parte politica, ovviamente sempre quella. Ribadire, da parte dell’Udi nazionale, che la Legge di iniziativa popolare, corredata di 120.000 firme certificate, è depositata in Parlamento ed è a disposizione, non è considerata una risposta politica. Ricordare che nessuna/o eletta/o l’ha finora presa in considerazione, neanche per dare un riscontro alla società civile, non è considerata una risposta politica. All’Udi nazionale si chiede un atto di compromissione, pubblico e significativo, senza il quale non avrà nessun riconoscimento pubblico e significativo. Solo il silenzio e la rimozione da parte della politica e dei media.

Nell’Udi e intorno alle sue Campagne si vanno delineando almeno due concezioni della politica. Non c’è da stupirsi né da preoccuparsi. È una costante della politica delle donne interrogarsi sull’efficacia delle forme che ci diamo per coinvolgere altre donne. È una costante interrogarsi su quale rapporto intrattenere con il maschile; su questo in certi momenti il dibattito è stato anche molto acceso. Differenti concezioni comportano sempre differenti modi di fare politica, se ne possono individuare almeno due. Una che confida nel rapporto con una qualche parte politica, che crede che ciò favorisca le istanze delle donne, che partecipa a manifestazioni governative o antigovernative, che sollecita il protagonismo femminile su obiettivi generici e parziali perché li ritiene utili per il genere. Un’altra concezione che cerca di sapere prima di tutto quali donne si rappresentano, cosa pensano e cosa vogliono, che cerca di parlare a tante donne, che vuole cambiare il rapporto tra i generi facendo opinione, cambiando il linguaggio perché pensa che la politica delle donne produca di più quando cambia il costume e la cultura che quando si attesta solo sulle leggi e sulle regole. Ci siamo imbattute tante volte nella necessità di dover marcare passo passo il nostro ambito politico per non farci divorare dai partiti (3).

Dunque non siamo nuove a certi meccanismi, pertanto fare politica per noi è dare le gambe alle nostre idee, le gambe e l’intelligenza delle donne. Quando abbiamo lanciato la Campagna 50E50…ovunque si decide! sapevamo che la rappresentanza non si riduce a un puro fatto numerico, non vuol dire solo metà donne e metà uomini, ma sollecitare il protagonismo femminile, fare opinione. La Campagna ha segnato un cambio di passo, ha dato alle donne pensiero politico e parole da spendere ed è significativa la discussione che si è aperta sulla presenza delle donne nei consigli di amministrazione delle aziende. Un esempio clamoroso sono state le recenti elezioni amministrative dove le donne sono intervenute numerose e hanno fatto la differenza, anche singole donne, senza sigle di appartenenza. Non sono state da meno per i referendum, dove erano tante e visibili, attive e propositive, facendo la differenza anche per noi, perché ci dà la misura di un protagonismo diffuso.

Questo prefigura una democrazia condivisa. Su tale spostamento ci dobbiamo interrogare andando a Congresso e, se il caso, dobbiamo tornare sui nostri passi per capire quanta memoria abbiamo perso e quanto siamo cresciute strada facendo.

Pensiamo all’autodeterminazione. Per tante di noi, nei primi anni ’70, ha voluto dire un nuovo modo di essere e di percepire il corpo, mentre a tante ragazze questa parola non dice niente, ma si comportano come se lo sapessero. Si muovono nel mondo con fare spregiudicato, improntato ad un forte senso di sé. Le singole scelte si collocano in uno scenario attraversato dalla libertà femminile e perciò segnato dal declino del patriarcato. Si arriva così a pensare che decidere del proprio corpo sia privo di conseguenze, lo dimostra tutto il dibattito sulla dignità della donna che ha portato alla manifestazione del 13 febbraio scorso. Alcune ragazze, in quell’occasione, hanno reclamato pubblicamente il diritto di usare il proprio corpo per avere più soldi, per comprare più cose, per pagare le tasse universitarie, per sottrarsi a lavori faticosi e usuranti. Di fronte a tali affermazioni  è emerso un intreccio corpo-denaro-potere inscritto in rapporti di forza inimmaginabili fino a poco tempo fa; queste ragazze non possono essere comprese nello schema della vittima e non si rapportano a chi ha il potere come all’oppressore. La parola ‘autodeterminazione’, come la stessa parola ‘libertà’ (femminile) assumono un significato totalmente altro con effetti spiazzanti.

Lo slogan con il quale molte, moltissime donne, insieme a molti, moltissimi uomini, scendono in piazza il 13 febbraio di quest’anno è: se non ora quando. Le promotrici, sostenute da una variegata opposizione al governo, colgono il diffuso sentimento di indignazione, anche di vergogna, per i deprecabili comportamenti privati del Presidente del Consiglio e chiamano in piazza donne e uomini in difesa della dignità delle donne. La manifestazione ha toni ovviamente antigovernativi.

Ancora una volta ci troviamo a dover decidere se e come partecipare, ma questa volta è tutto più complicato. Sono tanti i rapporti che abbiamo costruito in nome dell’autonomia e fare un passo indietro su questo terreno può avere un prezzo molto alto, tutte le donne dell’Udi hanno presente il rischio, cambia solo la risposta che si vuole dare, proprio in nome del prestigio e dell’autorevolezza conquistati.

L’Udi nazionale, in continuità con la pratica dell’associazione, non aderisce alla manifestazione: una parte delle iscritte condivide tale scelta, una parte no. Il contraccolpo è fortissimo, evidenzia un punto di frattura tra noi che finora era rimasto sottotraccia. Quelle che hanno aderito sono convinte che abbiamo perso un treno. Quelle che non hanno aderito sono convinte che su quel treno si poteva salire solo senza sigla e senza  bandiera. La decisione presa dall’Udi nazionale fa inaspettatamente notizia, ne parla il tg2 e il tg de la7 e – come nota Chiara M. da Brescia, in un lettera scritta a mano – questa volta non sbagliano neanche il nome dell’associazione. Per un istante usciamo dall’invisibilità solo per essere contrapposte ad altre.

Anche le donne ne parlano, c’è chi scrive nei blog e chi mail direttamente all’Udi.

Come Benedetta Z.: Devo dire che condivido pienamente questa scelta. La trovo la più appropriata in un momento in cui si rischia di divenire parte, per disperazione ed esasperazione, di un “noi” al femminile in cui convoglia di tutto e convogliano tutte. Un grazie sentito. 

Come Roberta B.: L’importante è esserci, io credo che a questo punto dovremmo tutte fare un passo indietro per farne due in avanti, non possiamo trincerarci dietro a non so quale cosa, per non partecipare. Certo tutto quello che hai detto è giustissimo e condivido, ma proprio perché BASTA ESSERE DONNE, credo si giusto partecipare numerose. Un abbraccio.

Quanto avviene non è un fulmine a ciel sereno, da qualche tempo nell’Udi si vanno radicalizzando opinioni e posizioni. C’erano già stati altri ‘no’, come quello detto alla manifestazione del 3 ottobre 2009 per la libertà di stampa, che alcune Udi locali non avevano condiviso. Nel comunicato nazionale si legge: UDI non partecipa alla manifestazione indetta per il 3 ottobre a Roma a favore della libertà di stampa a seguito delle ultimissime vicende che hanno visto come protagonista l’attuale Presidente del Consiglio. Abbiamo molto da dire sulla libertà di stampa e sulla corretta informazione. A partire da noi. Non intendiamo entrare in un gioco dove l’oggetto del contendere è altro rispetto a noi, anche se passa – come sempre – attraverso il corpo delle donne. Troveremo i nostri modi per dire dove sono le donne, le loro parole, i loro corpi. Il nostro appuntamento pubblico è e resta la manifestazione di sabato 21 novembre a Brescia. Le donne dell’Anfora si ritroveranno in Piazza della Loggia per rendersi visibili a se stesse, poi alle altre e alla città. Questa è la visibilità che vogliamo. Questo è il riconoscimento che l’UDI persegue. La Staffetta sta avendo un esito straordinario grazie alle donne dell’UDI e  grazie  all’apporto concreto e reale delle 500epassa Associazioni che hanno aderito. Questo è il Paese che politica e media non vedono, questo è il paese che non sanno leggere interpretare raccontare rappresentare.

Questo è anche il paese dove la comunicazione corre in internet, come nel resto del mondo, senza la rete non avremmo avuto tempo e denaro per comunicare capillarmente e direttamente. Le relazioni che abbiamo costruito attraverso internet ridisegnano la fisionomia dell’associazione (4).

Un patto per dire noi dove ognuna ha già imparato a dire io erano le parole d’ordine del Congresso precedente, su di esse abbiamo impostato il nostro progetto politico e il nostro stare insieme, forse la necessità – la paura di sparire –  ci ha tenuto insieme. Oggi ci sentiamo tutte più forti e ognuna ha un “io” tutto nuovo da rappresentare, grazie anche ad internet e alla confidenza che un numero sempre più massiccio di donne ha con questo mezzo. Ci sono quelle che hanno l’urgenza di spendere il capitale accumulato con le Campagne, dichiarano che ci sono momenti in cui si prende posizione e sono convinte che ciò sia senza costi. “Il 13” è stato per una parte della politica delle donne, quindi anche per una parte dell’Udi, il sogno che si concretizza, l’evento unico per mostrarsi insieme. Per le donne dell’Udi, che siano andate con la bandiera dell’associazione, che siano andate da sole, esserci ha voluto dire essere come le altre, quelle altre che spesso e volentieri ci rimuovono.

E’ ricorrente per l’Udi essere contemporaneamente troppo ingombrante e insieme trasparente.

Una manifestazione di questi tempi si lancia dalla rete telematica, per la sua riuscita, come per il suo fallimento, è determinante il rilancio che ne fanno la televisione e i giornali. In pratica è decisiva la relazione che ha con il potere. Come non condividere Federica Giardini quando dice: […] informazione e comunicazione, che sono parti essenziali anche per la politica delle donne, mancano di un pensiero sull’egemonia, sui rapporti di forza e di potere che chi fa informazione e comunicazione mette in atto. Qui la parola di donne che non sono nate alla politica in questi ultimi quindici anni è determinante per leggere sia cosa succede sia per formulare delle nuove pratiche. Anche la comunicazione può diventare un campo di politica delle donne(5).

Federica tocca una nota dolente. Nella nostra società se i media non parlano di te sembra che tu non esista, si è spostato sulla televisione e sui giornali un sentimento che le donne conoscono bene e che hanno combattuto con il femminismo: non far dipendere la propria esistenza dallo sguardo dell’altro. Questo principio vale nella vita, vale in politica, praticarlo richiede un forte senso di sé, richiede titolarità sulle proprie idee, sulle proprie azioni, sulle proprie parole. Non farsi definire dallo sguardo dell’altro equivale a depotenziarlo.

Nell’Udi – come nei collettivi femministi e nei piccoli gruppi – il partire da sé è stato un processo lungo e coraggioso, ha voluto dire ricongiungere la parola all’esperienza e su questa pratica sono nate relazioni e si sono costruiti spazi politici. E tutte ci siamo sentite responsabili, degli spazi e delle parole. Di questi tempi capita frequentemente che si prenda la parola con facilità, perché si è più colte e più istruite, perché il femminismo è diventato una tematica, materia di studio. Sempre più spesso negli spazi politici delle donne un eccesso di parole rivela lo scarto tra come una donna si rappresenta e la sua reale esperienza. Il rischio è non saper più distinguere cosa è personale e quindi politico e cosa è privato ed è bene che rimanga tale. Affidarci a chi sa come si tesse una narrazione collettiva è un modo per imparare a fare politica andando oltre una generica presa di parola slegata dell’esperienza.

Pesa il silenzio delle figlie, delle nipoti, delle ragazze intorno a noi. Un esempio che è di questo tempo: il silenzio che circonda il papilloma virus. I medici parlano di infezione per non dare lo status di malattia, vista la larga diffusione tra le ragazze. (4 su 10).  Se ne sa poco, ma si sa per certo che se non lo si cura, provoca in età avanzata il tumore al collo dell’utero. Le cure, una volta contratto il virus, risultano spesso invasive e non  comportano l’effettiva guarigione. Il papilloma si trasmette per via sessuale e il preservativo non serve a nulla, i maschi ne sono portatori sani o con conseguenze per loro ridotte. Ebbene, le ragazze che scoprono di avere questa infezione non ne parlano neanche alle madri, le stesse che magari le hanno accompagnate al momento giusto da una ginecologa o al consultorio per avere informazioni sulla contraccezione. Cosa le porta a chiudersi, a non confidarsi neanche con le amiche, non lo sappiamo, ma proprio questo ci chiama in causa. La scarsa informazione non fa capire l’entità di  questo virus e quanto influisca sulla sessualità. Intanto i metodi che vengono adottati per scongiurarlo o per  debellarlo sono tutti a carico delle donne. Ancora una volta la ricerca, a distanza di decenni, così come è stato per gli anticoncezionali, si concentra sul corpo femminile senza prendere in considerazione il corpo maschile.

Allo stesso tempo si spendono parole e si intraprendono iniziative a sostegno della procreazione medicalmente assistita. Tutto legittimo, non sfugge però lo sbilanciamento a favore del desiderio di un circoscritto numero di donne di una certa età. Pesa tanto il silenzio, ma anche la riproposizione di azioni politiche modellate sul passato, con lo sguardo rivolto indietro.

Prendiamo il lavoro, tanto per fare un altro esempio. In diverse occasioni ci siamo dette: dobbiamo parlare del lavoro. In tutti i nostri documenti, comunicati non manca mai un accenno, un riferimento al lavoro, anzi abbiamo provato a più riprese ad occuparcene, ma ogni volta le emergenze – 194, femminicidio, immagini offensive –  ci hanno chiamato su altri terreni, dobbiamo essere anche consapevoli che non siamo state capaci di affrontare il problema nel modo giusto. Per farlo dovremmo rileggere criticamente le responsabilità dei partiti dei sindacati e anche le nostre.

Teresa Di Martino del Gruppo Diversamente occupate, parlando della manifestazione del 9 Aprile contro la precarietà scrive: ci sono stata dall’inizio, dalla stesura dell’appello. Come avrete visto era un appello largo, aperto, promosso da 14 reti, associazioni e gruppi, che in modi diversi affrontano il tema del lavoro e della precarietà come condizione di lavoro e di vita. Non più disposti a tutto. Un segno della forza di un movimento che nasce dalle relazioni. A cui si è aggiunta la determinazione – condivisa da tutte e tutti i promotori – nell’inchiodare quel giorno partiti e sindacati che avevano deciso di scendere in piazza con noi (e di cui riconosciamo le responsabilità nella costituzione del sistema di precarietà in cui viviamo) a farsi carico della condizione di lavoro e vita di cui due generazioni sono protagoniste, a metterla al vertice dell’agenda politica e soprattutto a riconoscerci come soggetto politico con cui confrontarsi, per smetterla con la retorica della precarietà di cui i nostri politici si riempiono la bocca. Perché siamo stanche e stanchi di sentir parlare di noi, la politica deve partire da noi! (6)

La redazione di fareilpunto, il blog dell’Udi, nell’editoriale a sostegno della manifestazione del 9 aprile, rilancia: occupate a fare lavori che, quando ci sono, non rispondono alla nostra formazione, né alla nostra esperienza, né garantiscono un tenore di vita minimo. “Libere” solo di scegliere fra occupazioni di medio basso profilo e solo in determinati campi. “Libere” di occuparci di figli, anziani e casa, ancora oggi, come se fosse ovvio e naturale. […] Questa precarietà rende sterili, non solo in relazione alla maternità, occupa la vita al punto da non lasciare il tempo per partecipare alla vita sociale e politica.

Nel documento precongressuale dell’Udi di Modena e di Carpi si trova un’affermazione chiara e netta: il lavoro non si può più aspettare, si deve costruire.

 Affermazione per nulla banale perché se vogliamo essere conseguenti dobbiamo mettere le mani su equilibri ben consolidati e corporativi e perché ciò avvenga non si può che immettere una discontinuità con le lotte di emancipazione che, se hanno dato i loro frutti, hanno anche generato qualche equivoco. Forse le leggi di tutela sulle quali almeno due generazioni di donne hanno impostato le loro lotte politiche, con esiti anche concreti, rappresentano oggi una gabbia più che una tutela. Se le donne entrano nel mondo del lavoro tardi e vanno in pensione prima, gli effetti non sono solo una forte penalizzazione sul piano retributivo e di avanzamenti di carriera, ma l’essere diventate noi il welfare dell’Italia. E’ ancora tutta nostra la manutenzione della casa e il conseguente benessere del nucleo familiare, siamo noi a garantire una stabilità sociale che non ci sarebbe senza l’accudimento e il contenimento costante dei rapporti interpersonali. Questo non fa che allargare il divario tra la preparazione, la competenza, l’ambizione, le mete possibili a cui una donna aspira e il ruolo in cui continua ad essere ricacciata come fossimo negli anni ’50.

 Forse è arrivato il momento di esprimere un pensiero articolato sul prolungamento dell’età pensionabile a prescindere dall’emergenza di un provvedimento del Governo a seguito di una sanzione europea, mettendo a fuoco il rapporto tra donne e lavoro così come si è determinato in Italia. Intanto, c’è già qualcosa sulla quale lottare: il Governo si era impegnato a utilizzare i risparmi derivanti dall’aumento dell’età pensionabile – 4 miliardi circa in dieci anni – per interventi sull’inclusione delle donne nel mercato del lavoro, la conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro e il cosiddetto fondo non autosufficienza. Il Governo ha già iniziato a spendere e intende continuare a spendere diversamente quei soldi.

Giusto un anno fa dicevamo per il lavoro ci vorrebbe un Planetario pensando allo strumento che proietta su di una volta la disposizione e il movimento dei corpi.  Sarebbe necessario avere uno sguardo su tutto, ma proprio tutto “quello che ruota” intorno al lavoro, perché avevamo la sensazione di andare per compartimenti stagni, sull’onda dell’ennesima emergenza, senza una visione di insieme che è buona prassi politica. Il Planetario ha a che fare con i “corpi celesti”, nel nostro caso non possono che essere i corpi di tutte le donne, le giovani e le meno giovani, le donne che fanno impresa tra mille difficoltà, le donne che un lavoro non ce l’hanno mai avuto, né flessibile né precario, quelle che sono invecchiate a fare le co.co.pro., quelle che vorrebbero andare in pensione ed oggi scoprono che non si può più, almeno non come una volta. I corpi di chi vuol lavorare e fare figli, oppure non farli.

E le straniere? Una nuova progettualità politica sul lavoro deve necessariamente tenere conto della loro presenza, perché in tante supportano la nostra emancipazione, perché tante, piene di inventiva, hanno saputo fare fronte a situazioni di partenza svantaggiate e non si sono arrese diventando piccole imprenditrici, commercianti, sarte, artigiane. Va anche detto, fuori da ogni enfasi, che il rapporto con queste donne non è semplice e quante di noi hanno sperimentato una relazione diretta sanno che si tratta di un corpo a corpo duro per entrambe. Gli esiti possono anche essere straordinari, ma perché un rapporto sia fertile, a cominciare da  quello politico, deve andare oltre i pregiudizi che sono reciproci. Dobbiamo confrontarci veramente per poter inventare strategie e sottrarci a tutti i fondamentalismi, ad ogni fondamentalismo, anche quello della politica. E andare insieme verso una cittadinanza compiuta per tutte.

Un noi più grande

Il noi che ciclicamente ci prefiggiamo di costruire patisce la rappresentazione del genere imposta da pubblicità televisione e media, ma anche l’arte e le immagini sacre fanno la loro parte nel determinare stereotipi che ci vogliono in posizione subalterna. Il Web non è da meno. Ogni giorno siamo bombardate da una rappresentazione mortificante che induce ad una scarsa autostima e fa sì che nessuna consideri affidabile un’altra donna, con pesanti ricadute anche sulla disponibilità a farsi avanti o ad assumere ruoli di potere.

La Campagna Immagini Amiche ha consentito non soltanto di denunciare e/o ribellarsi davanti alle immagini più volgari o violente, ma soprattutto di svelare le insidie nascoste in tanti stereotipi. Quando si usa il corpo delle donne come oggetto di seduzione dobbiamo avere ben chiaro che non si sta parlando agli uomini, si sta  parlando a noi per dire: se vuoi  essere vista – da un uomo, ma anche dalle donne – devi essere come questa donna. Apparentemente spregiudicata, apparentemente disinvolta, in realtà modello più moderno per assecondare l’immaginario maschile. Lo sguardo che una donna sente su di sé – quello degli uomini, come pure quello di altre donne – è uno sguardo doppiamente ambiguo che controlla e modera.

Indirizzare la nostra azione politica verso una rappresentazione amica delle donne ha voluto dire indagare le ragioni profonde su cui si costruisce la rappresentazione dei generi. I tanti messaggi che spingono i rapporti tra donne verso la rivalità sono frutto di una modalità che forse non è antica quanto il mondo, ma è certamente vecchia quanto il patriarcato e serve a tenerci divise. Essere una donna è un’impresa quotidiana, perché non sia una fatica solitaria serve la politica.

E’ ancora tanta la strada che abbiamo da fare perché le conquiste delle donne non siano di vantaggio solo per poche. Sono tantissime le donne con cui abbiamo bisogno di parlare. Questo deve farci muovere alla ricerca di un noi più grande in cui ciascuna possa riconoscersi senza doversi cancellare. Chi vuole impegnarsi per realizzare questo progetto deve anche essere pronta a modificarsi. Non è un’impresa facile, anzi è una sfida piena di incognite, ma è la sfida del momento storico e politico che stiamo vivendo. E non si può rimandare a tempi migliori perché  potrebbero non arrivare mai. Con queste convinzioni e con queste incertezze andiamo a Congresso. Ci andiamo come il soggetto politico che siamo diventate. Disponibile alle contaminazioni, che favorisce il ricambio e ancora una volta si mostra interprete di una storia collettiva che muta continuamente.

noidell’udi noiconledonne.

PDF

(1) Comunicato stampa di Usciamo dal Silenzio, Milano, 22 dicembre 2005: Usciamo dal silenzio ringrazia le donne e gli uomini, le associazioni, i partiti, i sindacati, in particolare la Cgil, della generosità con la quale stanno in questi giorni contribuendo alla buona riuscita dell’appuntamento nazionale, costruendo momenti liberi di partecipazione e di discussione. Considera vitale mantenere un metodo trasversale e di dialogo con tutte le istanze organizzate, facendo salva la propria autonomia.

(2) Un orizzonte altro  Pina Nuzzo, Assemblea nazionale UDI, Pesaro 30 gennaio 2010 

(3) Pina Nuzzo, Una nuova stoffa per la nostra politica, Assemblea nazionale UDI 4 dicembre 2010 

(4) Lettera al tempo di mail Pina Nuzzo,   Roma 26 giugno 2010

(5) Federica Giardini, intervento del 16 aprile 2011 promosso dalla Sede nazione sul ruolo che hanno avuto i partiti, i sindacati, i movimenti femminili e i media nelle manifestazioni del 13 febbraio e del 9 aprile,

(6) Teresa Di Martino,  intervento del 16 aprile 2011 promosso dalla Sede nazione sul ruolo che hanno avuto i partiti, i sindacati, i movimenti femminili e i media nelle manifestazioni del 13 febbraio e del 9 aprile,

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