M. Carone e S. Guglielmi – Seminario Udi 22.02.07 – Sala Olivetti – Roma
Tutte le donne che sono qui oggi – a partire da noi che parliamo – sono protagoniste a vario titolo di un percorso di emancipazione. Una strada che almeno da sessant’anni ci vede in rapporto con il Diritto e i diritti. Siamo anche variamente “reduci” da un 2006 nel quale tutte abbiamo celebrato un sessantesimo. Celebrazioni rispetto alle quali nessuna istituzione si è tirata indietro.
Siamo qui a dirvi come siamo arrivate alla determinazione di formulare un testo di Proposta di Legge, dove anche il contenuto è frutto di una modalità peculiare dell’Udi. Diamo per conosciuta e nota a tutte l’ultima fase che in parlamento e fuori ha visto tentativi vari di porre l’accento su quello che va sotto la locuzione “riequilibrio della rappresentanza”.
Facciamo un passo indietro: Udi nel 1978 è stata tra le promotrici di una raccolta di firme su di una Proposta di legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale. Si è trattato di un percorso travagliato che, pure nel porre l’accento sul concetto giuridico di “persona”, ci ha viste poi sempre più ad interrogarci sulla soggettività sessuata, in rapporto al Diritto. Non si chiedeva maggiore tutela. Non si chiedevano più diritti. Non si chiedeva più uguaglianza e parità. Si affermava il valore della donna come persona a partire dalla violazione del suo corpo e della sua integrità. Siamo entrate in rapporto con la norma a partire da fatti gravissimi di cui le donne erano vittime, ma abbiamo voluto rimarcare la necessità di prendere parola come testimoni. Tanto che, ancora oggi, questo resta per noi molto più che uno slogan, anche nella iniziativa Udi contro il femminicidio.
A partire da quella scelta, dalle parole che sono intercorse in quel tempo, è iniziato un cambiamento del nostro sguardo rispetto alla norma. Certo, la decisione di entrare in parlamento con una proposta, è stata travagliata e ci ha viste discutere molto – anche al nostro interno – su aspetti fondamentali, con confronti durati tutto l’arco di tempo fino e oltre l’approvazione, poi, nel 1996 di quello che è stato approvato. Quello che vogliamo qui sottolineare è che contemporanea e consequenziale è stata una fase di riflessione su concetti quali universalità, uguaglianza, cittadinanza, democrazia. Su tutto, sentivamo la necessità di smascherare la pretesa neutralità del Diritto e di dare finalmente titolo alla dualità che a partire dal Genere è condizione di base essenziale per una autentica universalità.
Cosa è accaduto in questi anni, anche a noi che parliamo: abbiamo continuato a lottare perché nei fatti, nella nostra vita, nel lavoro, nelle famiglie ci sentivamo discriminate a partire dal fatto di essere donne; abbiamo chiesto parità (nel diritto di famiglia, nel lavoro, nello status) e abbiamo vissuto tutto questo – oltre noi stesse – come un processo che in qualche modo ci avrebbe portate all’uguaglianza rispetto agli uomini.
Eppure, quelle stesse nostre vite, la materia vivente delle nostre vite, la realtà dei nostri corpi, i conflitti privati e pubblici con il maschile, infine tutto quello che per noi autenticamente conteneva e tuttora contiene la parola separatismo, ci dicevano dell’esistenza di un “Altrove”.
Prima ancora di una acquisizione di livello teorico-giuridico, e anche indipendentemente dalla dirompenza di un pensiero pure affascinante come la Differenza, abbiamo sentito in noi l’essenzialità primaria di questo ancora magmatico Altrove, anche rispetto alla norma.
Si trattava di qualcosa a cui le affermazioni di uguaglianza e i divieti di non discriminazione non riuscivano a dare risposta, perché non potevano dare risposta a quello che oggi chiamiamo cittadinanza duale.
Essere due nel mondo e nel diritto è qualcosa di fondamentale che va inscritta nella norma per rifondare l’uguaglianza e che va praticata, per realizzare la democrazia.
Uguaglianza – lo diciamo sempre sul piano giuridico – non è qualcosa cui si può giungere per “annessione”, né per “approssimazione”, neanche nella più rosea e illuministica delle previsioni. La differenza tra i Generi è pre-condizione di uguaglianza, va contenuta e compresa nell’uguaglianza, fa l’uguaglianza.
Le donne non sono solo un certo numero del genere umano.
Sono la base della vita, condizione, possibilità di esistenza della vita, di qualcosa che viene prima e contiene ogni altro diritto. Questo è l’unico concetto di Diritto naturale che noi possiamo concedere di usare.
Fino a un centinaio di anni fa, nella migliore delle situazioni – e ancora oggi nella maggior parte del mondo – le donne sono state e sono considerate né più né meno che “portatrici insane” di cittadinanza altrui.
Eppure le donne non sono “altro”, rispetto a tutte le minoranze, le donne sono presenti in tutte le società, in tutte le categorie, in tutte le maggioranze, in tutte le minoranze.
Pensare le donne come una categoria in “odor di cittadinanza”, o peggio come una “minoranza” che chiede di non essere discriminata, è l’equivoco più assurdo posto alla base del principio formale di uguaglianza, al quale si lega, in un gioco altrettanto perverso, il divieto di discriminazione, così come tuttora è conosciuto e contenuto nelle Costituzioni delle democrazie moderne e nella stessa Dichiarazione universale dei diritti umani.
E’ importante soffermarci su questo, perché è questo divieto che viene utilizzato, a favore delle donne – in maniera ambigua e contraddittoria – come leva sia per le azioni positive sia per le norme “antidiscriminatorie”.
Nell’un caso e nell’altro si parla sempre di quote, anche quando si rivendica la costituzionalità del 50% delle candidature, alla luce della recente modifica dell’art.51 Cost.
L’impressione che ne abbiamo ricavato è che – pure a fronte di premesse parapolitiche molto avanzate – l’ansia preponderante sia quella di pacificare gli animi, sul piano della costituzionalità.
Ovvero, ci si costringe ai salti mortali sul piano delle soluzioni, pur di far ricadere il tutto nell’ambito della “non discriminazione”.
Occorre essere molto decise, anche sul piano costituzionale: noi, che viviamo e patiamo la cittadinanza in una democrazia moderna, pensiamo che donne e uomini debbano affrontare anche tutti gli altri nodi al pettine dell’uguaglianza, così come vengono snocciolati in tanti primissimi articoli. Sul piano formale, ciò che vale per le donne, vale per tutti.
Occorre affrontare quei nodi nelle Costituzioni, nelle varie Dichiarazioni programmatiche, a partire da quella Universale, senza però confonderli con il “gioco” della democrazia.
Ogni democrazia, vissuta sia come “male minore” sia come “migliore dei possibili mondi”, vive del gioco dell’alternanza, della maggioranza e della minoranza, e, con le strategie possibili a sua disposizione, deve tutelare ogni minoranza dalla discriminazione.
Ma una Costituzione, specie se Universale, non può, anche solo formalmente, anche fosse per vietare una discriminazione, adombrare uguaglianze di serie A.
Non si può lasciare che un’uguaglianza di illuministica memoria venga ancora ipotizzata in capo a soggetti unici cittadini detentori per Storia o anche solo momentanea maggioranza, quasi che possa esserci (si vedano i vari passaggi preceduti dalla locuzione “senza distinzione…”) – pur nell’uguaglianza e a fronte della cittadinanza – un sesso più sessuale di un altro, una razza con un incarnato migliore, una religione più religiosa, lingue meglio articolate, etnie con radici geneticamente più solide. A seconda.
Certo, l’assurdità formale di quel divieto nei confronti del genere femminile è palese oltre ogni confronto.
In questi anni è accaduto anche altro.
Alcune istituzioni (pensiamo ad alcuni organismi europei, soprattutto grazie a donne in carne ed ossa che ci sono dentro) si sono rese conto, nei fatti, che la presenza paritaria di cittadine e cittadini nei contesti decisionali non solo consente di dare voce a istanze altrimenti sconosciute, ma rende quella democrazia una vera democrazia, proprio per i motivi che dicevamo prima, posti a base della vita e della esistenza umana.
Basta tenere presenti alcuni passaggi dei documenti europei per comprendere che a determinate acquisizioni si è giunti non certo perché una maggioranza democratica si è accorta che la voce delle donne “andava presa” in considerazione.
Democrazia paritaria è locuzione variamente usata, anche per sostenere le azioni positive, anche le quote, il tutto impostato sul principio di non discriminazione rispetto all’uguaglianza tra cittadini.
Noi siamo giunte a questa determinazione, attraverso le nostre vite e infine attraverso i nostri studi, perché una volta svelatoci l’equivoco di partenza del divieto di discriminazione, non possiamo che vedere strettamente congiunta, sul piano giuridico, la Democrazia Paritaria alla Cittadinanza duale. E’ necessario usare questi due aggettivi “paritaria” e “duale”, perché se non esistesse il “problema” (e le donne non sono il “problema”, le donne si limitano a porlo), esisterebbe solo Democrazia e Cittadinanza.
Sappiamo che affermare un diritto in una norma ha una forza propositiva che va a incidere anche su assetti sociali ed economici.
Certo, da sola questa affermazione non basta, e tutto ciò che ruota intorno a Democrazia Paritaria è anche o soprattutto un fatto culturale.
Ma non possiamo fingere con noi stesse, né in nome di approssimazioni temporali, né di affidamenti illuministici alle “luminose sorti e progressive”, né ancor meno in considerazione di pratiche di piccolo cabotaggio istituzionale.
La Democrazia Paritaria o è affermazione del “50E50 ovunque si decide” oppure non è.
Ci viene detto che la società non è pronta e che ci saranno tavoli di contrattazione.
Ma questo non è il compito dell’Udi, anche quando decidiamo di entrare in rapporto con la Norma. Senza peccare di presunzione agli occhi di nessuna, questo non è il compito che ci assegna la nostra Storia. Una Storia che ha sessanta anni, con una genealogia, con dentro – come tutte le genealogie – il femminile e il maschile. Noi non lo rinneghiamo, perché non lo nascondiamo e solo grazie al fatto che non ce lo siamo mai nascosto, oggi possiamo guardarlo, giudicarlo, superarlo. Lo diciamo con serenità, anche a fronte di tanti attuali revisionismi, da parte di molte e molti.
Oggi Udi non è né quella degli anni sessanta, né quella della svolta femminista: ribadisce la sua autonomia, o ancor meglio la sua propria signoria, sa riconoscere l’autorità e nominarla, assume le responsabilità, sapendo bene cosa è una organizzazione.
Il rapporto tra le donne nell’Udi è differente da una amicizia tra donne, dalla raccolta di opinioni in ordine sparso, travestita da gruppi di pressione politico-culturale.
L’Udi non è nulla di tutto questo. Siamo tutte figlie della nostra Storia e siamo anche altro da essa.
E’ possibile che alcune di noi – e noi ci auguriamo molte – siano protagoniste di contrattazione in quello che tutte e tutti ormai definiscono “riequilibrio della rappresentanza”. Ma questo non è affare dell’Udi. Udi non fiancheggerà una formazione politica piuttosto che un’altra, già esistente o in fase di gestazione che sia.
Riequilibrio della rappresentanza.
Ancora due accenni su questi due termini, su questa apparentemente innocua locuzione:
- intanto, ri-equilibrio di cosa, se un equilibrio non c’è mai stato?
Occorre un sano e mirato “squilibrio”, uno scossone, uno scuotimento, occorre squotare la politica. Dopo averla squotata e scossa, per chi ci sta, occorre rimboccarsi le maniche per farla, perché questo è solo l’inizio, è solo la condizione minima di una democrazia. Occorre fare politica, ciascuna dove e come crede, possibilmente in tempo prima della fine del pianeta. - sul termine rappresentanza, occorre essere ancora più decise e precise: rappresentanza intesa come “chi rappresenta chi” o cosa?
Proprio per sgombrare il campo da possibili equivoci sull’attuale posizione dell’Udi rispetto alla rappresentanza, preferiamo parlare di presenza paritaria.
Per l’Udi la presenza paritaria non è un obiettivo da raggiungere affinchè le donne vadano meglio e più “rappresentate”, per tutto quello che si è detto a proposito del genere femminile non assimilabile a “categoria”: debole, sottomessa, potente o inascoltata che venga immaginata questa categoria. Per l’Udi la presenza paritaria nei contesti decisionali è condizione di democrazia ed è altro dalla qualità, dalla stessa competenza o bravura, dall’appartenenza politica.
Tale e quale come oggi è la “presenza” per gli uomini, non solo nei contesti non democratici, ma ovunque, in ogni contesto nel quale si ha la pretesa di dettare legge da soli, e di chiamare questa legge “universale”.
50E50 ovunque si decide è una Campagna complessiva, che non contiene solo una proposta di legge, e che non si propone di restare confinata nei soli ambiti nazionali.
Per quanto riguarda, nello specifico, la Proposta che andremo a presentare, 50E50 significa affermare intanto un principio fondamentale e cioè che la Repubblica Italiana riconosce a fondamento della Democrazia la compresenza paritaria dei due sessi in ogni contesto nel quale si decide, dettando quindi norme che vanno ad incidere sui meccanismi che regolano le candidature per le Assemblee elettive.
Sappiamo che in Parlamento giacciono diverse proposte di legge, alcune riguardano l’assetto dei partiti e prevedono misure di pressione, nel rispetto dell’autonomia costituzionale, ma a partire dalla considerazione elementare che i partiti vivono grazie a risorse erogate dalla Repubblica e che quindi sono tenuti, non fosse altro per questo, a rispettare alcuni principi fondamentali della stessa Repubblica.
Sappiamo che la democrazia paritaria è un fatto culturale, ma proprio perché è un fatto culturale, sarà democrazia paritaria e non ‘quote’.
Sul piano tecnico dell’articolato, le norme riguarderanno le Assemblee elettive, cioè i contesti ai quali si accede con una candidatura sul territorio nazionale.
Pensiamo una norma che valga per tutto, per tutte, per tutti, a prescindere dai sistemi elettorali in vigore, cioè una norma che vada rispettata sia quando le formazioni politiche presentano le proprie candidature in un sistema maggioritario con collegi uninominali, sia in elezioni con sistema proporzionale, sia quando si prevedono liste bloccate, sia con voto di preferenza.
La sanzione per il mancato rispetto delle norme sarà la irricevibilità delle liste, o – a seconda – delle candidature complessive.
Sgombriamo il campo da alcune cose che agitano le menti di alcune di noi.
Sappiamo, dopo ciò che è accaduto nelle varie realtà a partire dall’introduzione delle quote ad oggi, che gli escamotages, gli ostacoli, le cose da prendere in considerazione sono tante. Infine, su tutto, ciò che a noi interessa è affermare un principio.
Ci potranno essere cittadine candidate in collegi “deboli”.
E ancora, essere candidate è condizione necessaria ma certo non sufficiente per essere elette.
Ma la democrazia paritaria non può prescindere dai punti di partenza, anzi, li deve contenere in sé, nella norma.
Le quote, sia che siano pensate come azioni positive, come forzature sul principio di uguaglianza, di natura transitoria, sia che vengano qualificate come norme antidiscriminatorie, non hanno nulla a che spartire con la Democrazia Paritaria.
Chiedere quote di elette è costituzionalmente inammissibile, e non solo perché inciderebbe oltre ogni misura sull’autonomia dei partiti. Chiedere quote antidiscriminatorie (anche del 50%) di candidate a tempo determinato, significa perdere in partenza, significa relegare una pur pregevole buona intenzione nell’ambito vecchio e da superare del principio di non discriminazione.
Sappiamo che occorre anche altro, sul piano delle risorse, sul piano culturale, sul piano dei rapporti tra gli individui.
Possiamo solo concludere con una affermazione secca, che ha dentro almeno due cose proprie dell’Udi, la passione e il realismo: la Democrazia Paritaria, come la libertà, costa e costerà.