2005: Relazione di fine mandato

Roma, Assemblea nazionale autoconvocata,4/5 giugno 2005, Relazione di fine mandato di Pina Nuzzo, Delegata alla sede nazionale

Ho assunto un ruolo nei confronti di questa sede quando era vicina al collasso. E non perché le donne che se ne erano occupate prima non fossero capaci ed esperte, ma piuttosto perché occorreva un ripensamento della nostra politica che chiamasse in causa ogni singola donna sulla rappresentazione e il racconto che andava facendo dell’Udi. Occorreva quindi ripensare l’Udi come luogo progettato simbolicamente, occorreva ripensare il nostro modo di stare insieme. Noi siamo l’associazione di donne che si chiama, e si è sempre chiamata, unione e non siamo una rete, non siamo un comitato, un club, una casa; non un partito perché non ci fondiamo su una linea e, a differenza dei partiti, lo sappiamo. Siamo una unione, appunto. E per avere una unione bisogna organizzare e amare l’organizzare.

Dichiarare questo amore rompe necessariamente con l’ideologia degli anni Ottanta e per dare una forma al noi siamo obbligate a ripartire ciascuna dalla nostra personalissima storia. Questo l’ho capito, prima ancora che si avviasse il XIV congresso, quando l’Udi si andava spegnendo e a tante pareva fisiologico. Io non potevo né volevo arrendermi, non potevo accontentarmi dei miei personali guadagni. Mi bastava guardarmi intorno, contare le presenze e le assenze per sapere che stavamo morendo di ideologia: il femminismo, l’XI congresso, il pensiero della differenza, le pari opportunità, i movimenti per la pace. Tutte storie che, collocate nel tempo, hanno avuto per noi un senso, ma che funzionavano ormai da interdizione reciproca e occultamento delle responsabilità. Rimettermi in ascolto e decidere cosa fare giorno per giorno, momento per momento. Affinare l’udito per poter riconoscere le voci. E captare la più antica voce dell’Udi, quella che parla delle donne svantaggiate come si dice oggi, povere come erano una volta, ma capaci di trovare nell’Udi un riscatto alla loro miseria che era anche culturale. Dentro una storia più generale che tante hanno condiviso con gli uomini che l’hanno fatta e che richiederebbe oggi una lettura più limpida, onesta e spregiudicata. Noi veniamo da quella storia e non c’è femminismo che ci affranchi dall’origine. Possiamo solo mettere in comune, in comunicazione, le diverse storie: perché anche la mia è una storia di riscatto e di emancipazione culturale. Diversa per età, per provenienza geografica, anch’io ho cominciato da lì, dentro l’Udi ho cominciato il cammino che mi ha portato fino alla differenza di genere.

Organizzando e organizzandomi ho trovato l’ardire di investire su un’altra economia che non fosse quella dei legami di sangue e della famiglia. Si chiama anche militanza. E pareva, a noi donne dell’Udi degli anni ottanta, che ci stessimo incontrando sulle affinità, o sui bisogni, quando invece stavamo usando tutta la sapienza che ci veniva dalla tradizione, dalla pratica politica dell’Udi, per organizzare il nostro tempo e il nostro desiderio. E’ questa differenza che non ha mai fatto di me una ‘femminista’ pur avendo appreso dal femminismo il pensiero fondante: partire da sé. Pensiero che mi guida ancora oggi e che mi fa guardare ad alcune donne con lucidità e affetto perché ne vedo le somiglianze come le profonde differenze. Le donne oggi giovani hanno il mio stesso desiderio di spazi più ampi e di confini allargati, solo che per me era già una conquista uscire di casa, andare a lavorare, avere un asilo dove “mollare” mio figlio, avere una mia socialità. Loro, ormai uscite dai confini delle case e della domesticità, per scelta o per necessità, percepiscono il mondo come la loro casa. Da qui nascono nuove paure, nuove “povertà”.

Perciò, se vogliamo fare politica e avere un futuro, siamo obbligate a nuove priorità.

Vi dico allora come mi sono vista nella sede nazionale. Come una progettista che vuole far parlare un luogo con una moltitudine di voci, non solo con la sua personale voce. Non tutte sono voci intonate, anzi parecchie, come me, sono stonate. Ma l’idea era di farne un insieme che suoni bene. Come una accordatrice ho provato  gli accostamenti e visto come andava. Questo ha richiesto un certo spirito d’avventura, moderato però da una istintiva ripulsa contro la distruttività. Ho vigilato per bloccare tutto quello che mi sembrava stantio e ho protetto quello che c’era di vitale, sapendo per esperienza che non è stantio ciò che appartiene al passato e vitale quello che è proiettato nel futuro: non è così semplice. Ho avuto modo di valutare giovani dotate di una buona dose di opportunismo e vecchie spregiudicate e generose.

Prima ancora che iniziative ho promosso accostamenti di persone e accostamenti di idee, di campi. E ho ripreso la pratica dei piccoli incontri, dove piccoli non equivale a insignificanti: piccoli perché capaci di agire una sobrietà politica, uno sfrondamento di ciò che è inutile, ingombrante, decorativo. E piccoli perché più adatti a parlare delle priorità e delle urgenze, più capaci di impostare non una politica “visibile” come sono visibili le “veline”, ma significativa, tendente a lasciare un segno e ad accumulare forza.

Da qui nascono nuovi accostamenti, nuove priorità. Da qui è stato possibile pensare alla sede nazionale come luogo di nascita di un nuovo rapporto sia con le istituzioni che con altri soggetti politici. L’Udi, quindi, come luogo progettato simbolicamente, con la certezza che l’Udi è l’unico sforzo in atto in Italia per organizzare politicamente le donne. Sforzo, non certezza. Perché l’esistenza dell’Udi non è dovuta e non è garantita nemmeno grazie ai “sacrifici” fatti da una o da tutte. Capire la realtà significa sapere che tutto può sempre finire, nonostante l’apparenza, nonostante gli archivi.

Rivendico la fatica di un rispetto tutto conquistato, come rivendico il diritto a veri conflitti invece della tolleranza nei confronti di generiche inimicizie che chiamano in causa i caratteri, senza nemmeno una vera competizione in nome di un progetto alternativo. Rivendico il solo fatto di avere scelto, in questi anni. Ed è su questo che vorrei essere giudicata. Perché il segno del rispetto tra noi è assumersi le conseguenze dei gesti politici che mettiamo in atto. Le mie sono sotto gli occhi di tutte.

Dal resoconto del 13 giugno: L’Autoconvocazione del 4-5 giugno 2005 è stata partecipata, nonostante l’impegno di tante per il referendum sulla legge 40 (PMA). Chi proprio non ha potuto partecipare ha scritto o telefonato. Sabato l’assemblea ha mantenuto l’ordine del giorno previsto. Sulla base della relazione, che allego, mi sono autoproposta e sono stata riconfermata. Mi auguro di portare a termine il lavoro che ho cominciato e i progetti che ho avviato insieme con altre donne. Ringrazio per la stima e l’affetto che tante mi hanno testimoniato. Concludo questa lettera augurandovi una estate serena, Pina Nuzzo

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