Modena 08/09 Febbraio 2003, autoconvocazione congressuale, intervento di apertura di Pina Nuzzo
Rifletterò con voi ad alta voce su alcuni punti che mi stanno particolarmente a cuore. Nella prima parte del mio intervento dirò che cosa ho tratto dal pensiero della differenza sessuale; che cosa ho imparato dalla tradizione dell’Udi; che cosa dobbiamo imparare dalla nostra libertà. […]
Come molte di noi, mi sono appassionata al pensiero della differenza sessuale quando eravamo nell’Udi libere dal vincolo di una rappresentanza nazionale e tutte in ricerca per riempire il vuoto di rapporti che l’azzeramento dell’organizzazione aveva prodotto. Venendo a mancare la funzione erano venuti a mancare i presupposti che li avevano regolati, consegnandoli o alla sfera del privato o alla distanza. Perfino l’economia del mio tempo quotidiano ha risentito di questa mancanza e della legittimazione, rispetto alla famiglia, che l’attività politica nell’Udi aveva comportato, sia pure mai pacificamente. Non a caso in quegli anni – la seconda metà degli anni ’80 – pur partecipando alle autoconvocazioni nazionali e pur conservando localmente la denominazione Udi, molte di noi frequentavano i luoghi deputati in cui le esponenti più autorevoli del pensiero della differenza sessuale tenevano incontri e seminari: lì capitava di incontrarsi, di commentare i testi che andavamo studiando avidamente e di appassionarsi a quella lettura del mondo e dei rapporti tra donne — pensiamo alla genealogia, alla disparità, all’autorità femminile, all’affidamento, alla relazione duale, alla madre simbolica … – che ci faceva decodificare in modo diverso la storia e i rapporti che avevamo alle spalle ma anche quelli che stavamo vivendo. Non posso qui soffermarmi sullo sconvolgimento che questa specie di nomadismo ha comportato all’interno delle autoconvocazioni nazionali: certo insieme all’arricchimento ha avuto come conseguenza l’esplicitazione di molti conflitti. Mi vien da dire che così come fu forse troppo acritica l’assunzione, così oggi rischia di essere troppo sbrigativa la liquidazione di quel pensiero.
Così facendo si rischia di occultare una parte della nostra realtà associativa che ha trovato forme organizzative sue proprie sulla base di questa pratica politica.
Questa ricerca è stata anche la mia ricerca. I limiti che ho avvertito sono essenzialmente due: uno era il carattere totalizzante di quel pensiero, in contraddizione con la conquista di soggettività faticosamente raggiunta attraverso il percorso nell’Udi, l’altro l’espulsione del corpo. Ognuna di noi, io credo, non era più disponibile a riconoscere il senso del proprio corpo di donna nelle diverse rappresentazioni, stereotipi, figure sociali proprie dell’ordine patriarcale, che non a caso avevamo combattuto (un esempio per tutti le parole che avevamo gridato nei cortei “non più puttane non più madonne, solo donne”). Avevamo bisogno di dare un senso e una rappresentazione della nostra libertà e del corpo che essa produce.
Quel pensiero, riconducendo tutto all’ordine simbolico della madre, non si poneva la domanda e non mi dava risposte.
Quell’interrogazione sul senso del corpo, inteso non soltanto come sessualità ma complessivamente come materialità e come rappresentazione di me stessa e del mio genere, non poteva per me essere risolta da uno spostamento simbolico che avveniva sul piano di un solo linguaggio: la parola, in presenza o scritta. Così come, d’altra parte, non poteva essere soddisfatta da una pratica, come quella dell’Udi, che poco si soffermava sul significato delle diverse forme politiche che veniva via via producendo, confinandole nell’organizzativo.
Per mia sensibilità sono sempre stata attenta ad un altro linguaggio: quello delle immagini e del loro significato. Non solo perché le produco, ma perché la spregiudicatezza che mi è venuta dalla politica mi ha fatto guardare alla produzione artistica, che è patriarcale nella sua essenza, e a vederne tutta la potenza simbolica. Pensiamo a quanto la grande arte dei secoli passati abbia contribuito alla fondazione del potere religioso e di quello politico, a dare una rappresentazione dei rapporti sociali e di genere, alla quale nessuno e nessuna di noi si può sottrarre, sia che si tratti della Cappella Sistina che dell’ultimo dei santini di devozione. Pensiamo ai segni della sovranità, come anche ai simboli delle grandi formazioni politiche: dal Sole dell’avvenire all’icona di Che Guevara.
Niente è più soggettivo dell’arte, ma la soggettività dell’artista non potrà mai avere cittadinanza senza uno sfondo collettivo, un intreccio di relazioni e un investimento economico. Senza la consapevolezza della funzione dell’arte, le donne non avranno mai una padronanza del simbolico. Quello che dico non è così lontano dalla nostra esperienza comune: che cosa sono la mimosa, l’8 marzo, la commozione che ci prende davanti ai vecchi manifesti, alle foto, ai filmati delle manifestazioni femministe con le loro invenzioni, che cosa l’emozione che ci ha dato la treccia di corda all’apertura di questo congresso, l’attenzione che riserviamo alla fattura del calendario, della tessera, della bandiera, la regia stessa di questa nostra giornata, se non la percezione che attraverso quelle immagini comunichiamo il senso di noi stesse e della nostra storia? cioè produciamo il simbolico di cui abbiamo bisogno?
Quando ho capito questo, ho anche capito che dovevo ripartire dalla mia storia politica, dalla sua parzialità e da lì, in quello spazio-tempo, cercare la mia rappresentazione. […]
Noi più adulte sappiamo quanta importanza ha avuto nelle nostre vite la dimensione collettiva, il contare sulle altre, il rispecchiamento che ci faceva comprendere che i problemi delle nostre singole vite non erano una condanna, ma una condizione comune che poteva essere cambiata. Così come abbiamo fatto.
In poco tempo siamo passate dalla paura della maternità al desiderio della maternità e dalla paura del desiderio alla libertà di nominarlo. Noi che abbiamo lottato per raggiungere questi risultati e le donne più giovani che abbiamo allevato perché fossero libere, viviamo oggi tutte con grande fatica la gestione dei nostri desideri.
Le più giovani, però, non hanno memoria di quello che sta appena alle spalle e non si rendono conto che è la prima volta nella nostra parte di mondo che una generazione di donne si misura con le scelte di vita in nome del proprio desiderio e non del destino o della sudditanza. Ritenere ovvi lo studio e il lavoro, decidere quando mettere su casa o quando fare i figli, è una possibilità che ciascuna considera solo come una fatica perché la realizzazione di questi desideri richiede da parte delle donne di assumersi la responsabilità di progettare la propria vita e di determinare le priorità, che non hanno però lo stesso peso perché non sono dello stesso ordine.
Di questi tre desideri – realizzazione nel lavoro, desiderio sessuale, voglia di avere un figlio – solo uno, una volta assunto, diventa irreversibile: parlo del desiderio di maternità.
E considero questo un esito delle nostre lotte per sconfiggere l’aborto clandestino e avere accesso alla contraccezione, che permette alla maternità di essere vissuta come una possibilità. Se le donne possono decidere del proprio corpo, è logico che non lo considerino più unicamente come riproduttivo e che questo determini il fenomeno sociale del calo delle nascite nei paesi sviluppati e in particolare in Italia, che per sé non è negativo ma che diventa tale se messo a confronto con il tasso di natalità degli altri paesi dove, non a caso, i corpi delle donne non godono né dei diritti umani né dell’integrità.
Se le donne, e soprattutto le più giovani, non si percepiscono più come soggetti da tutelare, è anche vero che ognuna di loro pensa che ogni problema è un problema suo, individuale, o al massimo della famiglia d’origine. Dobbiamo sapere che quando liberamente si desidera un figlio e liberamente si chiama un uomo a partecipare di questo progetto, i futuri genitori hanno diritti e doveri diversi da quelli che abbiamo sin qui conosciuto e praticato. Tutti i fenomeni ai quali assistiamo e che ci vengono presentati come eccezionali e circoscritti – l’inseminazione artificiale di donne eterosessuali o lesbiche, la procreazione assistita, l’utero in affitto, le nonne madri – hanno la loro radice nell’esercizio di questa libertà. Insomma, l’esercizio di questa libertà crea situazioni a noi sconosciute e inedite, anche dal punto di vista giuridico. Le soluzioni puramente nominalistiche – la famiglia, le famiglie – sono assolutamente superficiali rispetto alla natura del problema,che richiede alla politica, a cominciare dalla nostra, uno spostamento capace di rinominare i diritti e i doveri riferendoli ai soggetti individuali e ai generi.
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nella foto io quell’anno